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L’opera lirica nei tempi della sua riproducibilità tecnica

I) Surrogazioni virtuali ed amplificazione vocale
Eresia e profanazione estetica

Negli ultimi giorni sono apparsi alcuni articoli e dichiarazioni vergate da cantanti lirici di fama internazionale e da operatori del settore che forniscono spunti importanti per una riflessione estetica su alcuni aspetti del mondo performativo contemporaneo del melodramma.

Tra i punti toccati da tali articoli emerge, tra gli altri, quello sulla necessità di amplificare le voci liriche in teatro in risposta al grado di inquinamento e di tossicità acustica che corredano le nostre atmosfere socio-ambientali, allo stesso tempo negando che tale assunto possa attribuirsi al decadimento, talvolta tangibile, della penetranza di molte delle voci acclamate e non del mondo dell’opera. Tale assunto porta alla luce la reale condizione ambientale ad alta concentrazione di rumore di fondo (1) e di nevrosi sonora di cui tutti siamo vittime.

L’accelerata mutazione temporale ed esistenziale, avvenuta in pochi decenni, ha cercato con mille espedienti di coprire il silenzio interiore della coscienza. Il senso comune tende infatti a rifuggire dal silenzio, percepito come pericoloso, e trova piacere sadico nel rumore ricercato ossessivamente. L’uomo, incapace di gustare il silenzio, con uno slancio centrifugo si lancia lontano dalla profondità della sua esistenza a favore di luci abbaglianti e rumorose superfici.

monteverdiIl tecno-capitalismo nichilistico ha ormai saturato del tutto lo spazio del reale e del simbolico, tra cui quello del nostro melodramma. Il sistema imperante della tecnica e delle sue forme, visione del mondo e potente weltanschauung, è articolata in una moltitudine di sottosistemi aumentando ancora di più la sua pervasività. Non c’è una mano invisibile esterna concreta da fronteggiare ma una costellazione di sottosistemi ramificati che operano nella direzione di una desertificazione delle grandi catene dei significanti culturali della nostra civiltà. Tale molteplicità rende più complessa la capacità di discernimento e difesa ma non per questo meno urgente e impossibile.

Nel nostro tempo non c’è più traccia di quella coscienza infelice carica di interrogazioni vitali che ha dato origine nel corso della storia umana a tutti gli ordini simbolici, religiosi e trascendenti. L’inquinamento acustico ha dunque un suo correlato reale nei mutati sfondi dei nostri spazi di convivenza urbana ma è intimamente connesso ad un subliminale dominio atto a generare una pervasiva e totalizzante massificazione. Una sovra-esposizione uditiva sarà di certo non atta a fruire dei costrutti simbolici troppo complessi e raffinati come quelli del melodramma, e impatterebbe a vuoto contro la sua alterità. Constatiamo alcune tendenze del nostro tempo che, invece di provare a salvaguardare il melodramma, si alzano contro la sua forma e il suo rituale. Sono tendenze pronte a rimuovere non solo i suoi sublimi prodotti dello spirito ma altresì la disposizione e le condizioni classiche ed eterne della loro fruizione. Se il grande assente del nostro mondo è il silenzio lo sarà di sicuro il bisogno di interrogarsi sul mondo e le sue urgenze spirituali ed estetico-culturali.

MozartLa musica colta fa fatica a farsi spazio tra le maglie della contemporaneità, non c’è più tempo per decodificare la complessità, non c’è più tempo di profondità, di ascolti prolungati e meditati, non c’è più tempo per fermarsi, formarsi e decodificare. La musica lirica resta infatti, a dispetto di tutto e tutti, epifania del profondo ma anche teofania, ierofania, spazio aperto sul sacro della vita e come per tutti gli spazi sacri necessita di distanza e contemplazione. Nella prosa dei nostri mondi rumorosi iper-accelerati c’è solo spazio per superficiali e rapsodici ascolti in alta frequenza, in modo da silenziare le profondità dell’Io che potrebbe emergere. Alla luce di questa premessa la tesi dell’amplificazione delle voci liriche tende a naufragare per la sua non accorta centratura e per la sua aporeticità di fondo. Reclamare l’inserimento di una protesi acustica sulle voci, naturalmente amplificate, del vocalista lirico spinge in maniera più o meno intenzionale sull’acceleratore del nichilismo e della barbarie della tecnocrazia dilagante che ha messo in crisi da diversi anni, attraverso dispositivi politico-economici e culturali, il teatro musicale. L’inserimento del microfono negli spazi teatrali in questo caso andrebbe nella direzione di un sovvertimento delle condizioni inamovibili del classico operistico e rientrerebbe nel novero delle trasgressioni illecite e profanatorie. La sostenibilità del rinforzo amplificativo della voce può solo giustificarsi per spazi all’aperto, compresi quelli in cui un tempo era possibile farne a meno a causa dei mutati sfondi acustici e ambientali (Caracalla, Arena di Verona, etc.), sale da concerto di grande portata, stadi: tutti quei luoghi, insomma, che minerebbero non solo la sostenibilità fisiologica da parte dell’interprete con relativi surmenage, ma anche la resa sonora stessa dell’evento in questione.

Quando però l’amplificazione dovrebbe applicarsi tout court agli spazi classici e cultuali del melodramma, come i teatri di opera tradizionali, si aprono scenari pericolosi destinati a distruggere lo statuto autentico ed originale della forma d’arte in oggetto. Se da una parte riconosciamo il fragore acustico mortale dei nostri mondi, dall’altra non possiamo oltrepassare il limite accordando credito all’esiziale teoria culturale che il melodramma debba in qualche modo innovarsi per essere al passo coi tempi.

 

RossiniÈ opportuno dunque evitare di assecondare ibridazioni e interpolazioni di tutte le forme estranee alla sua ragion d’essere per non correre il rischio ineluttabile di un suo precoce declino.

Il microfono, così come le forme home-streaming-opera sui social e similari falsano la naturalità e l’autenticità dell’evento operistico. La voce amplificata fa perdere le distanze necessarie per una contemplazione favorendone una sua consumazione cannibalica, filmica e stordente, così come la fruizione virtuale.

La lontananza di un oggetto estetico immerso in uno spazio cultuale e sacro, quale il teatro, esige un raccoglimento contemplativo e reclama la necessaria distanza tra l’Io e l’alterità dell’evento artistico. L’opera vive di quel virtuoso coinvolgimento emotivo e spirituale in cui l’Io è impegnato in uno sforzo di catarsi e purificazione. Lo sforzo del porgere l’udito e la partecipazione fisica nei luoghi teatrali significa porgere attenzione all’intelligibilità, tipica dell’opera, ponendo in essere il suo meccanismo di teatro greco. Il risuonare della voce del cantante ha bisogno di spazio reale, interregni di atmosfere per poter poi confluire in noi e rielaborarsi in senso, bellezza e godimento. Lo sforzo di ascolto e lo sforzo penetrativo congiunto con il pubblico reale è commisurato al grado di complessità dell’oggetto artistico ma è anche foriero di piacere assoluto. Portare in evidenza la voce con indebiti aumenti di decibel esautora implicitamente gli equilibri con le masse e apre la strada a un’erosione di tutto il sistema opera, fino a digitalizzare e liquidare così gran parte dei suoi elementi a vantaggio di soluzioni letali.

Giuseppe-VerdiL’operazione di snaturamento del melodramma nasce da un atteggiamento, ricorrente e infondato, di una buona parte del mondo che conta (ahimè!) interno all’opera lirica di andare incontro alla modernità in tutte le modalità, non solo sul mezzo di trasmissione della voce ma anche sulla sua forma complessiva. Un atteggiamento che usa l’espediente della crisi attuale per guadagnare consenso, pubblico, allievi e notorietà nel tentativo di ringiovanire il presunto asfittico e incanutito teatro musicale. La modernità è assunta acriticamente, come un valore non negoziabile, invece di far sì che essa possa emendarsi e correggersi a contatto con le grandi cornici narrative simboliche dell’eredità culturale. Entriamo nel vivo della vexata quaestio dell’attualizzazione del melodramma che per inciso spesso degenera in una sterile opposizione dialettica tra progressisti e conservatori.

WagnerIl teatro musicale, così come è stato eseguito nelle forme e nei modi negli ultimi secoli, non ha bisogno di nulla se non di naturali e continui apporti di rispettosi criteri ermeneutici. L’apporto legittimo delle interpretazioni innovative devono essere innanzitutto commisurate al rispetto della drammaturgia e della sua struttura portante e poi delle condizioni esecutive fondanti ed originarie che rendono il genere un classico eterno (orchestra, coro, solisti dal vivo senza microfono, ballerini, scenografi, costumisti, pubblico, rituali, luoghi deputati, rispetto della complessità e onerosità necessaria etc.). L’opera lirica, come tutti i classici (ricordiamo la lezione di Calvino sul tema (2) a in sé una profonda capacità di essere sempre nuova prescindendo dalle attualizzazioni e modernizzazioni del suo corpo intrinseco. La bellezza eterna del classico non ha bisogno di essere manomessa con mezzi estrinseci atti a perforare la sua integrità. Il melodramma conserva la sua inaudita potenza e la sua giovanile bellezza pur senza gli eterodossi metodi di aggiornamento e interpolazione (spesso arbitraria e irrispettosa) di criteri cosiddetti alternativi. I cantanti lirici sono mediatori di una forma eterna e il loro mezzo di elezione rimane la semplice atmosfera e il paesaggio teatrale deputato. Il canto lirico, frutto di perizia e maestria tecnica, è primariamente un fenomeno vibratorio che assume la sua verità nella immediatezza della propagazione nello spazio e della sua naturale portanza acustica nonché di orchestra, coro e pubblico reale. Questa è l’alchimia profonda del teatro musicale, che la si voglia riconoscere o no, la sua scaturigine e il suo debito con il teatro greco da cui attinge la sua eredità estetico-culturale. Dobbiamo a questo punto del nostro discorso ritornare sulla questione dell’attualizzazione dell’opera, il cosiddetto rendere l’opera smart, giovane, fruibile, virtuale, alternativa, economica, minimalista.

pucciniTale assunto, se radicalizzato, è totalmente irricevibile da un lato e intriso di luoghi comuni populistici dall’altro, perché pare che solo un’arte al passo con i tempi possa essere espressione di naturale Volksgeist, di uno spirito del popolo che non tollera l’incomprensibile e il difficile. Per dirimere tale questione occorre volgersi, seppur sommariamente, ad una riflessione sullo statuto dell’opera d’arte e volgerci alle argomentazioni di Walter Benjamin e del suo saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (3)  che ha segnato la storia della critica culturale e dell’estetica contemporanea. Nel saggio in questione emerge potentemente la domanda di come la riproducibilità tecnica dell’evento artistico (nel nostro caso il presunto neutrale microfono o le forme virtuali ibridate del genere) avrebbe potuto influire sulla sua intima natura. Il saggio di Benjamin concorre a suffragare implicitamente la nostra tesi e cioè che un’operazione apparentemente banale (e per certi aspetti glamour) di ammodernamento abbia nel suo fondo l’idea generale che questo tipo di forma d’arte sia ormai arcaica, archeologica, obsoleta, relitto del passato e in fin dei conti esanime.

La modernizzazione cattiva rappresenta infatti un veicolo dannoso di destrutturazione dei fondamenti del melodramma, un’aggressione alla sua unicità, alla sua auraticità originaria (concetto portante dell’estetica di Benjamin) privandola della sua carica simbolica, sacrale, rituale ed elitaria. Non dobbiamo temere di ammettere che esiste un provvidenziale elitismo estetico non per forza declinabile in maniera regressiva.

Richard StraussÈ necessario evitare di cedere a riduzionismi e semplificazioni della forma melodrammatica perché la nostra eredità culturale contiene sistemi complessi di decodifica; da sempre l’arte ha rivelato all’uomo che il sangue del senso ultimo delle cose permane solo nel sottosuolo profondo della realtà. Nei disparati campi della produzione artistica fin dagli anni ‘30 si è alimentata una profonda riflessione sull’interrelazione tra tecnica e arte, soprattutto in ambito delle arti cinematografiche e fotografiche ma anche in quelle figurative (basti ricordare il Bahaus, il neoplasticismo, il costruttivismo etc.) che hanno impegnato molteplici intellettuali, in primis la scuola di Francoforte, Lukacs, Brecht, Valery, Benjamin e tanti altri.

Il tema e i problemi della riproducibilità tecnica si lega alla riflessione generale sulla tecnica su cui si orientano, nel Novecento in primis, il pensiero di Heidegger, Anders, Severino (solo per citarne alcuni). Ma costatiamo con stupore che la tematizzazione e la problematizzazione della permeabilità e dell’incidenza del tecnico sullo statuto dell’evento musicale sia ancora ad uno stato acerbo. (4)

Stravolgere i mezzi canonici della lirica implica totale passività del teatro musicale di fronte alle mode snaturanti del momento. Dopo le ubriacature di una certa moda registica sprezzante della coerenza e del rispetto drammaturgico e sovvertitrice degli stilemi propri del melodramma sembra giunta l’ora di aggredire l’opera lirica con altri strumenti più pervasivi, come quelli offerti dalla tecnologia. Il pensiero di microfonare i cantanti d’opera, così come l’uso indiscriminato del mezzo virtuale, sottintende la non distinzione tra le diversificazioni delle vocalità e l’idea che non ci sia differenza tra le cose. La cultura pop (in fondo populistica) invade il mondo senza freni, tutto è uguale e posto allo stesso livello, e in virtù di ciò l’arte è sempre per la massa e deve seguire e inseguire i suoi costumi, i suoi desiderata e i suoi mezzi. Si profila un’invasione barbarica del teatro musicale, deprivandolo in questo modo della sua sostanza e della sua tipica estetica vocale. La domanda da porci è allora se l’opera lirica debba essere attuale (in una modalità degradante) e assecondare i gusti delle masse oppure fornire una resistenza simbolica al corso ormai liquido e nichilistico della realtà.

Attraverso le vicissitudini delle sorti dell’opera lirica, come un sismografo privilegiato, possiamo scorgere le operazioni subdole di corrosione sistemica delle sue fondamenta con la tacita connivenza degli operatori del settore. Il melodramma sembra che possa essere lecito solo se accattiva l’uditorio, se si semplifica, se si modernizza, se si fa glamour, smart, se si fa povero. In queste operazioni distruttive campeggiano su tutte negli ultimi anni (il suo declino viene da lontano) dai tagli sistematici dei fondi, dalle letture del regista di turno visionario sprezzante della coerenza e della verosimiglianza drammaturgica per finire alla disinvoltura dell’intrusione, talvolta eccessiva, delle nuove tecnologie, alla perdita delle grandi tradizioni delle scuole di canto e tanto altro. L’opera è, per certi aspetti, sotto attacco sistemico da diversi anni e con essa tutti i suoi canoni di classicità; è terreno di elezione di una razzia che erode il suo portato semantico a favore di una scheletrica e sterile sintassi della sua forma. Le orde barbariche invadono così tutti i campi del sapere e degli ordini simbolici veicoli di umanizzazione primari.

L’opera lirica, per la forza d’impatto del suo discorso musicale sulla coscienza critica e la sua capacità di fornire collante morale e spirituale all’uomo, è veicolo pericoloso di liberazione e di pensiero alternativo. L’opera deve, se vuole sopravvivere, ri-semantizzarsi, volgarizzarsi, riscrivere i suoi codici fondativi e tradire la sua verità. L’idea che l’opera sia troppo costosa, vetusta ed elitaria spinge verso l’idea di renderla più liquida, flessibile e per questo più prossima alla fruizione disimpegnata ed economica ad altri generi, di sicuro nobili, ma divergenti dalla sua autenticità e unicità. La performance operistica ha una sua irriducibile unicità, un suo hic et nunc da vivere nelle forme originarie in uno spazio consacrato alla sua fruizione tipica. La vocalità lirica ha in sé forza e potenza di impatto perché rieduca, riallinea l’udito sulle frequenze del mondo interiore dei cantanti e dei personaggi a cui danno vita. Il range di frequenze vibratorie è quello ottenuto con la sapienza di un’auspicabile techné (da distinguere dal concetto di tecnica) raggiunta dopo anni di apprendistato e fatica artigiana. (5)

La vocalità lirica è infatti espressione di leggi fisiologiche e di parametri acustici e risonanziali che sinergicamente concorrono a produrre risonanze nell’ascoltatore partecipe a tal punto da divenire lui stesso interprete creativo dell’evento. Tale comunione di vibrazioni simpatiche si declinerà nello spazio sacro del teatro, tempio e basilica del culto della sua verità, in una dinamica trinitaria tra l’esecutore, l’idea musicale e il pubblico. Non sono consentite deroghe e mutazioni che segnerebbero per il genere una sconfitta della pienezza dei suoi meravigliosi paesaggi sonori disegnati da secoli.

 

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È proprio il tempo, per i cultori e promotori autentici del genere, di tenere alta la guardia e monitorare e tutelare con attenzione il tesoro del nostro melodramma. Il sistema si avvarrà del pretesto della crisi finanziaria e in un attimo potrebbe consumare il suo eccidio della forma melodrammatica tanto indispensabile per l’umanità. La storia insegna che tutte le operazioni di ammodernamento di forme culturali classiche portano con sé interessi di natura economica e manovre di speculazione pecuniaria per coloro che se ne fanno carico soprattutto puntando sulla ingenuità e le illusioni delle nuove generazioni (terreno ideale di coltura di guadagno bieco). Occorre dunque cautela nell’uso indiscriminato e spregiudicato del virtuale (penso a concorsi di canto online, concerti con basi, smart-performing, streaming-performing, formazioni a distanza con basi preregistrate e tutte le molteplici forme alternative possibili), nonché cautela nel limitare le riproduzioni di performance teatrali dal vivo in streaming senza pubblico. È bene alludere anche ai rischi enormi di una disinvolta pratica della didattica vocale online che costituirebbe un attacco frontale ad una già agonizzante scuola di canto i cui tratti salienti non possono che ritrovarsi in un rapporto diretto e non mediato tra docente e discente. È necessario dunque un moto di resistenza e attendere tempi migliori per evitare di fornire pretesti al sistema di rendere sostituibili e non necessari gli elementi essenziali e i crismi della performatività operistica. Il mondo contemporaneo tende a patrocinare solo forme di immediatezza estetica che possano coinvolgere le masse con un piacere semplice marginalizzando le forme stratificate culturali che necessitano di mediazioni e interpretazioni come melodramma. Il nostro tempo misconosce l’inesauribile ed indispensabile valore della complessità che solo sa e può aprire mondi nuovi a favore di un’arte superficiale e in aggiunta edonistico-consolatoria. Si dimentica che l’ascolto di un’opera è solo secondariamente consolazione e diletto, mentre è in primis un protocollo complesso di decodifiche liberanti. Sentire un’opera è un processo di attraversamento del soggetto in ascolto che si lascia riscrivere e ridefinire esistenzialmente ed antropologicamente in un uomo nuovo. Noi non siamo mai uguali a noi stessi dopo un ascolto fedele e creativo di un opera lirica. I molteplici portati e corollari della teoria culturale in oggetto dell’ammodernamento dell’opera avranno conseguenze nefaste sul genere declinandosi nelle molteplici forme di digitalizzazione (Home Opera, streming Opera o consimili soluzioni multimediali) tradendo il debito simbolico che siamo tenuti a riconoscere verso l’eredità culturale a noi trasmessa nei secoli .

 

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L’opera va sostenuta e amata nella sua identicità perenne ed è possibile agire su di essa solo ed esclusivamente con opportuni correttivi di natura gestionale, economica, culturale e della sua governance di fondo. Penso in particolare al tema della tutela dei lavoratori, alla riduzione dei costi di produzione preservando la qualità, alla revisione del FUS, all’abbattimento dei prezzi dei biglietti, ad un numero fisso di posti gratuiti per indigenti, all’implementazione di recite per giovani, all’istituzione di accademie formative, la composizione di troupe, riutilizzo di produzioni, al limite temporale alle direzioni artistiche e delle sovrintendenze, alle tutele degli artisti lirici in tutte le sue sfaccettature, al rimodulare e normare i rapporti con le agenzie, al taglio degli sprechi, alla revisione dei cachet e tanto altro ancora.

Si deve e si può intervenire attraverso mezzi di natura politica non per ibridare e sovvertire la sua forma ma per razionalizzare e economizzare il meccanismo produttivo delle produzioni e ottimizzarne la sua diffusione interclassista. Il nostro mondo de-culturalizzato potrà vantaggiarsi, per la sua evoluzione e umanizzazione, della bellezza della lirica un po’ di più. Le nuove generazioni dovranno gustare senza confusive operazioni di semplificazione l’intrinseca multimedialità ante-litteram del melodramma e complessità del melodramma che saprà sortire i suoi effetti morali, spirituali, catartici, educativi ed estetici con la sua consueta efficacia.

 

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Ça va sans dir che in tempi come quelli odierni di contingentazione delle uscite e di distanziamento sociale i teatri possano prevedere performances alternative con masse ridotte e distanziate da mandare in streaming, ma sempre se tutto resta come espediente provvisorio da escludere a priori una volta finita l’emergenza. Il mondo infatti, attraverso il deserto di dolore terrificante attraversato a causa del coronavirus e l’immane trauma collettivo, nutrirà bisogni emergenti di grandi narrazioni simboliche come quella del melodramma. L’opera lirica, come del resto la filosofia, la dimensione religiosa e l’arte in genere, sorge con l’impatto con lo Thauma, la meraviglia, il terrore tremendo della vita che si ritrova con le sue grandi domande di senso sul dolore e il senso della vita. L’opera lirica, per chi sa pienamente comprenderla, è risposta musicale tentativa a tutte le grandi interrogazioni metafisiche e morali dell’uomo, rivelandosi, come Gabriel Marcel insegna “promessa di eternità e vittoria sulla morte e il dolore”. (6) La contaminazione della struttura originaria con dispositivi tecnici e modernizzanti in genere trasforma la sua essenza in qualcosa di altro, apparentemente neutrale, che contribuirà al suo destino di morte. Non è lecito nemmeno rifarsi all’analogia con il cinema nel richiamare simili procedure di ibridazioni dal teatro, proprio perché tale genere ha caratteristiche di frammentazione e scomposizioni di sequenze multiple e differite che necessitano di mediazione, distanza, compresenza di piacere e giudizio estetico privo di quella idea di contemplazione e naturalismo teatrale tipico del melodramma. Cercare di trovare dunque nel cinema un appiglio per legittimare le ibridazioni virtuali è operazione priva di fondamento storico-culturale.

 

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Quando Benjamin nel saggio in precedenza citato (7) si interroga sulla virtualità della riproducibilità tecnica dell’arte lo faceva pensando ad una auspicabile emancipazione rivoluzionaria di quest’ultima. L’arte avrebbe trovato riscatto nel suo valore espositivo e riproducibile e non più cultuale e totemico e irripetibile dell’evento artistico. La liberazione dell’arte dalla sua autorità e dai suoi spazi deputati avrebbe avuto così valenze totalmente politiche. Benjamin non si interessa al problema musicale che è di per sé già una ri-esecuzione ma si concentra nel cinema e nella fotografia, validando la nostra tesi di un impossibile processo di riproducibilità tecnica assoluta del fenomeno musica. L’opera ha già attraversato lunghe ed alterne fasi di adeguamento e rimodulazione in virtù del potere di impatto della precoce riproducibilità tecnica. Pensiamo ai primi fonografi (la popolarità di Caruso è una cifra saliente di tale democratizzazione diffusiva del genere), ai cantanti che si sono prestati alla cinematografia (pensiamo al mito di Lanza, alle presenze di Schipa, Gigli e Tagliavini in diversi film), alla radio, il vinile, il cd e ai molteplici supporti del mezzo trasmissivo fino ad arrivare alle moderne diffusioni al cinema delle grandi prime o di concerti in mondovisione in spazi inusitati (pensiamo al fenomeno Pavarotti ad esempio). Il melodramma ha già ante-litteram sperimentato molteplici risorse di riproduzione tecnica che hanno contribuito alla sua diffusione e al suo radicamento affettivo in tutte le classi sociali ( l’amore del popolo per il melodramma è una costante della storia fino a pochi decenni fa ). Se tale processo si spingesse oltre seguendo le orme di una sua mutazione radicale per una eterogenesi dei fini raggiungerebbe il fine opposto di allontanare sempre di più i giovani e il pubblico fino al triste epilogo di una sua fine precoce.

La presunta liberazione del genere dai suoi canoni classici consegnerebbe alla nuova generazione un prodotto illusorio, falso ipocrita, finto come una maschera vuota priva di senso.

Il melodramma nelle mani del dispositivo tecnico sarebbe progressivamente trasformato in altro da sé in una forma di opera liquida dal destino segnato. Il contesto storico segnato da una globalizzazione capitalistica tende a livellare in basso, analfabetizzare l’esistenza (altro che arte per tutti), volgarizzare le offerte di evasione (altro che ozio creativo), precarizzare l’esistenza e distruggere le forme stabili del vivere e dell’ethos incluse le sue forze culturali (altro che rimodernare il melodramma). La tecnica del nostro mondo ha in sé il solo scopo dell’aumento indefinito del suo potere, tra cui la sottomissione di tutto ciò che mina l’ordine costituito da essa stessa proposta come intrascendibile e naturale. Le ipotetiche forme liquide e ibridate serviranno solo a compiacere il suo apparato.

Il processo di erosione dell’opera lirica è già partito da diversi anni e ha mutato in poco tempo la sua funzione e il suo pubblico originario divenendo sempre più proibitivo trastullo innocuo per disinteressati arricchiti e ricchi annoiati e spettacolo per turismo di massa. Assistiamo all’uso indiscriminato degli spazi teatrali come luogo di una farsa sociale dove i fruitori vivono una mera rappresentazione sociale e borghese e di ostentazione di potere e ricchezza annullando con la loro totale estraneità al mondo dell’opera la sua inaudita potenza simbolica e spirituale.

II) La sacra eredità del Melodramma

Custodire, trasmettere e liberare

L’arte è e deve rimanere un mistero   (8)   che ha le sue credenziali di accesso definite, forse non disponibile a tutti, ma non un problema da risolvere tecnicamente. I sostenitori di forme alternative presumono, tra le altre cose, di poter fare a meno del pubblico tradizionale senza considerare che la sua tipicità come la prossimità fisica, fruitiva con il gesto teatrale sono prerequisiti della rappresentazione operistica. Il pubblico autentico dell’opera lirica, con la sua incondizionata dedizione e passione riveste un ruolo centrale nell’economia del genere. Il pubblico operistico assume così una funzione vitale di custodia e di cura di una forma d’arte universale, complessa allo stesso tempo fragile come quella del melodramma. Nelle fasi storiche critiche, come quelle attuali, tese al ripiegamento narcisistico del soggetto, l’uomo è tenuto a conservare le sue forme culturali, preservandone ancora di più la loro liturgia e la loro cultualità di fondo, a costo di sembrare inattuali. Sono i cultori dell’opera che hanno trasmesso nei secoli inalterato il deposito simbolico di questa arte eccelsa. Il teatro musicale vive attraverso il suo naturalismo e il suo fantasmagorico illusionismo e della sua insostituibile interrelazione con il pubblico dal vivo.

Le critiche anti operistiche si accaniscono in maniera talvolta sprezzante sul suo pubblico, identificato pretestuosamente come gruppetto di cultori e puristi melomani di nicchia, sovente alto borghesi. La tesi è totalmente infondata misconoscendo l’internazionalità, la diffusione del genere e la sua vocazione interclassista ed universale nonché della vitalità e della nuova configurazione giovanile internazionale del pubblico dell’opera. I veri cultori della purezza melodrammatica sono quel piccolo gregge verso cui dovremo, oggi e in futuro, rivolgerci come memoria storica fedele.

 

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Oggi il teatro vive la sua vita autentica e la sua resistenza simbolica grazie ai pochi e venturati custodi che, come i monaci durante i vili saccheggi barbarici, consegneranno al futuro le trame di un sapere universale altrimenti smarrito.

La cautela nei momenti di crisi è essenziale per discernere e conservare le grandi tradizioni culturali vulnerabili e poste sotto attacco. Non possiamo fare a meno dei grandi depositi di significati ereditati dalla storia ed incarnati nell’arte. Per difendere la tradizione occorrerà un impeto di fedeltà, unità di intenti tra gli amatori del genere, i cantanti, gli operatori e di politiche di sostegno forti. Custodire il lascito dell’umanità inalterato e sentire su di sé il debito simbolico non è un’utopia, ma un ideale fattuale e concreto, un sano volgersi dietro (una retrotopia vincente). Dobbiamo riconquistare e riappropriarci continuamente dell’eredità dei nostri padri per non farla morire come ben esprime la lezione di Goethe. (9)
Occorre vincere lo sconforto e la paura di essere in pochi e in controtendenza. Custodire e trasmettere sono gesti essenziali creativi, significa essere alternativi alla modalità esistenziale del consumo senza limiti . È tempo di rammemorazione forte delle cose che furono in prospettiva del futuro, fare costanti esercizi di anamnesi collettiva. Al gesto di custodia, traduzione e trasmissione si dovrà affiancare una continua testimonianza credibile della passione da trasmettere per osmosi e contagio e non in ultimo da una educazione musicale e culturale capillare e intergenerazionale.


1  Cfr. R. M. Schafer, The tuning of the world, 1977. Trad. it. Il paesaggio sonoro, Lucca: LIM, 1998.

2  I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 2017

3  W. Benjamin, L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica, Torino: Einaudi, 2014.

4  Cfr. AA:VV; L’esperienza musicale, Torino: EDT, 1989; in particolare il saggio di J. Stenzl, Claudio Monteverdi nell’epoca della riprodcibilità tecnica, p. 166.

5  Sul concetto di vis operativa dell’artista creatore artifex cfr. J. Maritain, Arte e scolastica, Brescia: Morcelliana, 2017.

6  Cfr. G. Botta, La struttura dell’eterno, Cinisello Balsamo: Mimesis, 2015 e Id. Il mistero dell’esperienza estetica, Mimesis, Cinisello Balsamo, Mimesis, 2014.

7  id. L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica, Torino: Einaudi, 2014.

8  Cfr. G. Botta, Il mistero della esperienza estetica, Milano: Mimesis,

9  J. W. Goethe  Faust Urfaust, Garzanti 1990, pagg. 52-53: “Quello che hai ereditato dai tuoi padri, guadàgnatelo, per possederlo”

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