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Novara – Cortile Castello visconteo sforzesco: La traviata

Il 29 luglio, nella suggestiva cornice architettonica del Castello visconteo di Novara, è andata in scena la prima delle due recite previste de La Traviata prodotte dalla Fondazione teatro Coccia in collaborazione con AMO, l’Accademia dei Mestieri dell’Opera del teatro.

Non è irrilevante sottolineare da una parte la tenacia e lo sforzo del teatro di non aver rinunciato al difficile compito di mantenere in piedi la produzione di spettacoli durante i mesi delle chiusure Covid, dall’altra come, all’interno di questa sua esemplare perseveranza, siano sempre stati i giovani artisti ad essere protagonisti.

Negli ultimi mesi la Fondazione si è spesa per allestimenti vincenti con i giovani e coproduzioni con il Conservatorio ‘G. Cantelli’ come La Domanda di Matrimonio di Riccardo Chailly per proseguire con La Cenerentola di Pauline Viardot e il godibilissimo ciclo di sei opere contemporanee I corti del Coccia-Opera Zapping (dalla fucina laboratoriale di composizione per il teatro d’opera dell’Accademia AMO, unica in Italia) e tanto altro; anche per questa Traviata sono i giovani dell’AMO a cimentarsi con un classico inesauribile della letteratura operistica.

Un titolo mitico, quello di Traviata, che come tutti i miti è più vulnerabile e fragile nella sua possibilità di essere svilito, manomesso, impoverito, decontestualizzato, o nel contempo rivisitato, reinventato e riproposto, come in questo caso da giovani voci, liberando così le sue traiettorie di senso eternamente vive e sempre contemporanee per la sua capacità di essere metatemporale e perciò classico nella sua piena accezione universalistica e trasversale.

L’idea registica di Giuseppe Dipasquale cammina a passi spediti attraverso un itinerario di sottrazione e spoliazione dal superfluo e va al cuore del dramma verdiano senza circonlocuzioni. Le scene, prodotte da Arte scenica, sono semplici quinte bianche che lasciano intravedere interstizi e spazi che disegnano uno sfondo che ricorda una stilizzazione di un tempio neoclassico dove il gioco sapiente delle luci di Ivan Pastrovicchio si prende in carico l’onere di sottolineare cromaticamente la densità morale ed esistenziale dell’opera verdiana, con una resa assai efficace.

I costumi di Artemio Cabassi, semplici e contemporanei, ricollocano la storia ai nostri giorni; al centro della scena campeggia un divano che, inamovibile, sarà il fulcro scenografico dell’opera e che pare assurgere a simbolo polisemico di un certo lassismo frivolo, di indolenza mondana e nel contempo di agonia quando diventa testimone dell’epilogo, dell’agnizione finale e della morte espiativa di un’eroina potentemente vera come Violetta.

Un gruppo di bravissimi ballerini, la cui coreografia è affidata a Giuliano De Luca, sottolinea attraverso la danza gli stati emotivi in una forma stilizzata, quasi a dipingere gli stati morali. La coreografia riesce nell’intento non di riempire spazi, ma di tratteggiare il tempo narrativo dell’opera segnata dall’incalzare corrivo della storia fino al sacrificio finale. Da rimarcare infatti la ricorrente presenza di uno dei ballerini che sullo sfondo, di spalle, con le braccia simula un orologio: l’effetto è quello di un singolare memento mori, un appello alla fugacità di Kronos che consuma e divora Violetta. Quest’ultima esordisce in scena con un semplice abito bianco e blu che fa da sponda cromatica e simbolica con lo stesso sfondo della scena e che quindi dialoga con lo spazio drammaturgico (pensiamo poi all’altro sfondo, rosso e arancione, del terzo atto). I bivacchi poltroneschi e la tonalità gaudente della prima scena sono registicamente efficaci e veri come potrebbe essere il clima di un festino mondano.

Il soprano che interpreta Violetta è l’iraniana Rakhsha Ramezani Meiami, membro effettivo dell’Accademia AMO. La giovane artista ha una buona presenza e figura scenica, un timbro e un colore vocale suadente atti a incarnare i colori e le tonalità verdiane, oltre a una certa sicurezza nelle agilità. Alla luce del fatto che assistiamo ad un debutto in un ruolo temerario e in uno spazio aperto, non possiamo non accreditarle un encomio complessivo (anche se in alcuni momenti probabilmente la tensione emotiva ha un po’ inficiato la prestazione). Nel contempo suggeriamo alla giovane artista di approfondire di più le molteplici gamme espressive delle dinamiche e di sottolineare la parola verdiana e i suoi caleidoscopici accenti. Violetta non è solo sentimentalismo e passione, ma anche luogo simbolico in cui si consuma una tensione agonica tra il male e il riscatto attraverso la taumaturgia del sentimento amoroso. Non è il volume che occorre ma l’altissimo sentire di prescrizione verdiana (ricordiamo la lettera all’amico Vigna) e cogliere le sfumature prosodiche infinite della scrittura che, con opportuno armamentario tecnico, anche un soprano lirico leggero può tratteggiare senza nessun complesso di inferiorità.

Il tenore Mauro Secci è un Alfredo convincente, dotato di una discreta sicurezza in acuto, di bel timbro e di un legato pregevole. Unica obiezione da muovere a Secci è forse una certa rigidità attoriale e posturale e una tendenza a rallentare i tempi, cose che però non intaccano la resa complessiva della prestazione. Notevole l’esecuzione della sua aria, con una Violetta in controscena, bendata, intenta a simulare un gioco infantile di mosca cieca che in realtà sembra preludere all’incipiente destino cieco che di lì a poco incomberà. Con tale trovata registica l’ingenuo idealismo del canto di Alfredo pare costituire uno sfondo illusorio, un inane sforzo di normalità affettiva negata dall’impietosità del destino.

Sergio Bologna, baritono dalla lunga carriera e unica presenza “senior” del cast, si conferma un Germont di ottimo livello, inserendosi in una dimensione della vecchia scuola italiana basata su un recupero del senso della parola, delle dinamiche e degli accenti, uniti alla sicurezza in acuto e tecnica salda; una prova, la sua, davvero riuscita, che trascina anche il resto della compagnia vocale. Bologna tratteggia non solo il volto arcigno dell’interdetto sociale e del vituperato mondo piccolo borghese, ma anche la coerenza sofferta di un padre i cui valori borghesi sembrano anche rilevare fortezza morale e simpatia oltre al luogo comune del perbenismo.

Ottima la prova di Francesco Scalas, un Gastone dotato di squillo e passaggio di registro assai congruo, così come quella di Semyon Basalaev, Marchese d’Obigny, che dimostra di possedere, seppur nella esiguità della parte, competenza proiettiva e bel timbro. Buone anche la prove di Filippo Rotondo come Barone Douphol, Luca Sozio come Dottor Grenvil, Gianmarco Cucca come Giuseppe, Wankiung Park come Domestico/Commissionario, mentre degna di menzione è la Flora di Simona Ruisi: una vocalità davvero interessante, ricca di armonici e squillante, unita alla simpatia scenica. Positiva anche la performance di Federica Vinci nel ruolo di Annina per aderenza scenica e resa vocale.

Il versante direttoriale è affidato a due degli allievi della Accademia AMO che annovera, oltre ad un corso di Composizione per il teatro Musicale, quello per Direttori d’orchestra: una diade preziosissima nel panorama delle offerte formative di alta specializzazione italiana e un fiore all’occhiello per il Coccia.

I prescelti al difficile compito della concertazione e direzione della Traviata sono Carlo Emilio Tortarolo e Riccardo Bisatti. A Tortarolo viene affidata la prima parte fino al Finale secondo, poi sopraggiunge Bisatti.

Quelle dei giovani direttori sono due personalità completamente diverse, la cui antitetica visione ha reso disomogenea la tensione narrativa e la coerenza di insieme.

Tortarolo, seppur dotato di un saldo tecnicismo direttoriale, sembra non avere presa con l’orizzonte della scena e dei cantanti, che paiono relegati in secondo piano e posti in difficoltà oggettiva. Il giovane direttore è troppo impegnato a far quadrare i conti con l’orchestra, e lo fa a detrimento di una diversificazione del discorso musicale, avvolgendo tutto in un un’atmosfera plumbea e monocorde con templi allargati.

Ci auguriamo che sappia trovare in futuro la necessaria flessibilità per comprendere le diverse tinte dei colori verdiani che, nella fattispecie di Traviata, oscillano perennemente tra vivacità edonistica e libertina e ripiegamenti intimi, doloristici e morali.

Tutto cambia dal finale secondo in poi, quando alla direzione arriva Bisatti. Il colore orchestrale e l’energia complessiva della performance si caricano di una sorta di adrenalina ricostituente, una ricarica vitale e vitalistica che nel contempo sa conferire rilievo anche ai momenti più squisitamente elegiaci e tragici, come il preludio dell’ultimo atto e il finale dell’opera, ma sempre con un’eloquente tensione interna. Bisatti, che ha un gesto chiaro e ampio, coglie l’interezza degli attori in causa (coro, orchestra, solisti) e lo fa con grande naturalezza. I cantanti sentono il suo sostegno e i tempi alleggeriscono il peso e la responsabilità del loro compito.

Un plauso all’Orchestra Carlo Coccia, la cui prestazione è stata eccellente per densità di colori, pienezza di volute sonore, cura dei dettagli ritmici del fraseggio, dinamiche profuse con grande ricchezza; il comparto archi è davvero encomiabile ma si contende il primato con le altri compagini anch’esse degne di menzione. Come non sottolineare la capacità di piegarsi al doppio dettato direttoriale, dimostrando di possedere flessibilità ed essere a servizio dell’idea musicale del direttore, qualsiasi esso sia.

Discreta la prova del Coro San Gregorio Magno.

Alla fine applausi per tutti e grande successo per una piacevolissima serata all’insegna della gioventù.

La recensione si riferisce alla prima andata in scena il 29 luglio 2021.

Giovanni Botta

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