
Milano Teatro alla Scala: Terzo concerto per ricominciare “Nuove voci alla Scala”
Lunedì 13 luglio il Teatro alla Scala ha presentato il terzo dei suoi quattro “Concerti per ricominciare” dal valore altamente simbolico. La serata, intitolata “Nuove voci alla Scala”, vedeva la presenza di alcuni giovani emergenti, affiancati da alcuni ex allievi dell’Accademia con una carriera internazionale ormai avviata da diversi anni.
Come già scritto nella scorsa recensione [3], l’esiguità dei posti predisposti all’opportuno distanziamento hanno scarnificato quella pienezza di pubblico a cui siamo avvezzi in questo teatro, rendendo tutto più mesto ma anche per certi aspetti più teso. Un paesaggio inedito, questo della Scala, che di sicuro non aiuta i solisti, ma anzi si aggiunge alla consueta pressione psicologica insita nella prestazione performativa, contrassegnata anche da una diretta streaming sulle pagine social del teatro.
Ad esordire sul palcoscenico del Piermarini è il basso coreano Jongmin Park con “Ella giammai m’amò” dal Don Carlo di Verdi. L’artista, ex cadetto dell’accademia della Scala, vanta ormai una carriera internazionale nei più grandi teatri del mondo e la sua performance rende ragione alla sua fama in crescendo. Il cantante possiede timbro nobilissimo, passaggio perfetto, linea vocale fluida e una tornitura che ricorda i grandi bassi di un tempo. Il volume è notevole così come un’attenta interpretazione. Nella seconda aria in cui si cimenta, la “Calunnia” dal Barbiere di Siviglia di Rossini, Park riscatta decenni di malcostume vocale con una interpretazione non più caricaturale, gigionesca, onomatopeica all’eccesso, ma spogliata finalmente da tutto il superfluo, restituendo un pezzo musicale sublime nella sua interezza. Rossini davvero ringrazia ed anche il pubblico.
Altro artista ormai di lunga carriera ed ex cadetto è Fabio Capitanucci, che con “Non più andrai” dalle Nozze di Figaro di Mozart e l’aria di don Magnifico da La Cenerentola di Rossini ci regala un’interpretazione molto ricca, corroborata da anni di pratica teatrale internazionale. Capitanucci pone in risalto, con il suo timbro pastoso ed omogeneo, tutte le inflessioni possibili del testo, costruendo così attraverso una sagace gestualità vocale dei personaggi ricchi di senso e credibilissimi. L’aria di Don Magnifico, analogamente al collega Park, è restituita nella sua interezza, scevra da vezzi obsoleti a cui si associano un sillabato e una coloratura a prova di una salda tecnica.
La voce di tenore, corda elettiva delle più recondite ed ineffabili risonanze emotive del repertorio operistico, era rappresentata dal giovane Raffaele Abete, debuttante al Piermarini. Comprendiamo benissimo l’eventuale carica di stress a cui è sottoposto un giovane che debutta in uno dei più grandi teatri del mondo (forse il più grande), ciononostante la prova di Abete è parsa non ancora all’altezza di questo palcoscenico. Il tenore è apparso in difficoltà in diverse occasioni, con un’emissione forzata e disomogenea. Gli acuti e la zona di passaggio, talora aperti e forzati, non consentivano quelle opportune dinamiche coloristiche e la fluidità lirica che pertengono alle due arie in cui si è cimentato (“Ah la paterna mano” dal Macbeth di Verdi e la blasonata “Che gelida manina” dalla Bohème), e la condotta vocale è stata tale da inficiare la resa complessiva. Anche durante il duetto Rodolfo-Mimì, affrontato in seguito con la esperta Irina Lungu, conferma le impressioni su questo giovane tenore che, seppur dotato di musicalità e di un timbro interessante, non riesce a stare al passo della sua ferrata collega. Auspichiamo, al netto di tutto ciò, che Abete possa in breve tempo riorganizzare il suo importante materiale vocale e poter così affrontare una lunga carriera nel solco del grande tenorismo italiano.
Il mezzosoprano Szilvia Sörös affronta con piglio spavaldo ed autorevole due topoi della letteratura vocale mezzosopranile di struggente bellezza: “O don fatale” dal Don Carlo e “Acerba voluttà” dall’Adriana Lecouvreur. Il giovanissimo mezzosoprano è dotata di bellissimo timbro, omogeneità dei registri, proiezione fluida e volume da vendere oltre ad un gusto ed una maturità interpretativa davvero sorprendente. La Sörös ha voce rotonda, tornita, pastosa e al contempo brillante e salda negli acuti, doti non comuni per questa corda che fanno intravedere una fuoriclasse ed una carriera di sicura importanza.
Dopo il mezzosoprano, ad inanellare due arie preziosissime del repertorio operistico è la voce sopranile di Irina Lungu, altra ex allieva dell’Accademia. La valente artista offre al pubblico l’aria “Je marche sur tous les chemins” dalla Manon di Massenet e “Sì, mi chiamano Mimì” da La Bohème. Il repertorio lirico francese, in particolare quello di Massenet, ha proprie specificità e stilemi non solo scritturistici ma anche estetici che richiedono voci assai dotate, in primis di una cerca pienezza timbrica, ricchezza dinamica e al contempo di una non comune flessibilità e agilità. Queste caratteristiche sono proprie dello strumento vocale della Lungu, la cui suadenza timbrica si lega ad una saldezza nel controllo delle escursioni tessiturali e ad una ricchezza dinamica ed agogica davvero degne di nota. La cantante è apparsa sicura di sé, tecnicamente ferrata e soprattutto molto espressiva. Anche il duetto de La Bohème è stato eseguito con gusto e piena rispondenza vocale.
La giovanissima Caterina Maria Sala, solista dell’Accademia della Scala selezionata nell’anno 2019-2020, ha un carisma vocale che definirei simpatico nell’accezione più ampia del termine: già debuttante alla Scala, sembra davvero a sui agio sul palcoscenico, sicura di sé e piena di carica comunicativa. La voce è dotata di brillantezza, freschezza, proiezione e di un vibrato vivo e dinamico che denota un sapiente utilizzo dello strumento, sempre libero da spinte ed emissioni forzate. Il soprano esegue la difficile e struggente aria “Ruhe sanft, mein holdes Leben” della Zaide di Mozart con un gusto ed uno stile che fanno presagire nel repertorio mozartiano un punto di forza della sua carriera. La seconda aria eseguita è il celebre “O mio babbino caro” dal Gianni Schicchi di Puccini: qui la Sala cerca di reperire una timbrica più densa, più pucciniana a discapito della purezza mostrata in Mozart. Piccole cose, ma sarebbe il caso che la sua voce rimanesse pura anche in Puccini, senza cercare assecondare scritture più impegnative da un punto di vista emotivo. In ogni caso è una voce di cui sentiremo parlare.
L’altrettanto giovanissima e talentuosa Federica Guida si cimenta l’impervia aria della “Der Hölle Rache” dal Die Zauberflöte di Mozart e “Je veux vivre” dal Romeo et Juliette di Gounod. La Guida possiede una voce di soprano di coloratura davvero importante e al contempo gusto, incisività espressiva, penetranza e maturità, oltre alla facilità estrema in acuto e sopracuto (penso ai Fa della Regina della notte ma non solo). Qualità sorprendenti in considerazione della sua giovane età. L’unica tendenza forse un po’ eccessiva che abbiamo ravvisato risiede in un’inclinazione ad ingrandire i centri e i gravi. Espediente utilizzato probabilmente per fare volume di cui non c’è alcuna necessità.
La serata si è conclusa con un bis, costituito dal quartetto de La Bohème (interpreti: Abete, Lungu, Capitanucci, Guida), con la consueta bellezza di questa musica che, come tutti i grandi classici, ha un’inesauribile capacità di stupire e riaccadere come se fosse sempre nuova.
I solisti sono stati accompagnati e sostenuti durante il concerto dalla maestria pianistica di Michele Gamba, attento e sicurissimo artista la cui esperienza ha saputo davvero fornire agli interpreti un saldo ancoraggio emotivo e musicale.
Alla fine della serata tanti applausi per tutti, in una serata che riaccende ancora la speranza di tornare presto a godere appieno della nostra amata Scala.
Locandina: