
Milano – Teatro alla Scala: Recital di Ferruccio Furlanetto
È un dono prezioso quello che ci ha dispensato lo scorso 6 febbraio il Teatro alla Scala con il recital del basso Ferruccio Furlanetto. L’evento ha in sé connotazioni e fattezze ben superiori agli standard di un normale recital di canto: fin dal principio, infatti, il cantante travalica i confini espressivi della performance canora per accedere a luoghi di ineffabile contemplazione e meditazione sui grandi interrogativi della vita umana.
Il recital principia con i Vier ernste Gesänge di Johannes Brahms, dove sembra esservi già in nuce quel fil rouge che sottende tutto l’impianto narrativo del recital. I quattro canti seri, che si alimentano di fonti bibliche, si articolano in una sorta di duplice sezione tematica dove i primi due brani, tratti dall’Ecclesiaste, sono come un inno alla morte e alla sua ineluttabilità in una vita a cui non rimane che un incedere insensato e doloroso; l’ordito della composizione sottolinea, con condotte pianistiche arpeggiate, ottave spezzate e cromatismi, quell’intimo e certo presagio che vive già nella coscienza immanente della sua fine. Il terzo e quarto canto, invece, si elevano verso vette di riscatto e di tensione escatologica che il testo del Siracide e della prima lettera di San Paolo ai Corinzi (l’Inno della carità) portano fuori verso un’idea di Caritas che tutto spera e che è il segno tangibile dell’eterno.
La voce e la saggezza interpretativa di Furlanetto, fin da tale esordio, rivelano i segni di una profonda attitudine sapienziale sul grande tema della morte, che non è solo cieca disperazione ma promessa di eternità.
Il basso friulano ipnotizza il pubblico trascinandolo attraverso il superamento della logica razionale e dei limiti del linguaggio; il suo itinerario vocale è incentrato per gran parte del tempo sulla morte, non quella nella sua radicale impossibilità di pensarla ma come quell’esperienza del morire soggettivamente esperita, di quell’essere per-la morte di heideggeriana memoria.
Il viaggio vocale di Furlanetto disegna traiettorie densissime di colori e significazioni espressive che paiono lavorare sul progetto poietico di un grande affresco che si conserva tale fin dall’inizio e a dispetto delle tinte tenui della speranza.
La morte non ci sembra un’immagine scabrosa di impossibile rappresentazione, ma un’immagine pienissima restituita in una cornice esplicativa rassicurante e questo grazie al magistero vocale di Furlanetto.
La voce del basso è ferma, ricca di armonici, omogenea e dal colore suadente, incede fremente e piena nella sala del Piermarini con rigore tecnico ed interpretativo, astratta e trasfigurata; non c’è traccia nel suo canto di scompostezza, di ricerca sguaiata, di effetti; il suo è un canto di scuola italiana tutto sul fiato, raccolto, morbido, mai spinto; Furlanetto fa sfoggio di un canto controllatissimo e ha in sé quella rara capacità di trascendere il materico e di rievocare la dimensione spirituale ed ontologica del mondo.
L’arte di Furlanetto ci regala ulteriori fonti di piacere con i Pesni i pljaski smerti – Canti e danze della morte di Modest Musorgskij; la sua arte vocale infatti non coglie solo il dolorismo di tali composizioni, così permeate di inequivocabile rancore, e nemmeno nella scontata descrizione enfatica del cannibalismo della morte che tutto annichilisce in un divenire vacuo: l’artista occhieggia a qualcosa di sotteso al dramma del dolore, come nella Ninnananna o nella scena della ragazza innamorata della Serenata, o in quello della morte repentina del terzo canto del Trepak e della morte insensata della guerra dell’ultimo magnifico canto del Polkovodec.
Il basso descrive questo accadere drammatico nella sua crudezza ma lasciando permanere in noi la certezza che tutto non sia maledettamente vano e che in fondo tutto possieda senso e significato; è proprio la particolare scelta delle tinte cromatiche utilizzate per questi brani a farci intuire la sua radicale scelta estetica di colori primaverili e di letizia nonostante tutto, che di lì a poco esploderanno nei canti di Rachmaninov.
La scelta saggia e filosoficamente orientata del programma sembra trovare in Sergej Rachmaninov e specificatamente in V molčan’i noči tajnoj (Nel silenzio della nostra misteriosa) e Vesennie vody (Acque di primavera) una sorta di epoché del dolore, un sospiro di sollievo dopo tanto rimuginamento musicale e vocale sui grandi temi del destino dell’umano.
Furlanetto si prodiga in sottolineature agogiche e dinamiche e la sua voce sta al passo con il prorompente incalzare del pianismo del compositore russo, ebbro ancora di reminiscenze čaikovskijane, ma romantico quanto basta per sfidare la voce a salite impervie che il basso domina senza far tralucere alcuna ombra di oscillazione (pur comprensibile alla sua età) e conservando una adamantinità nei suoi registri da far invidia, frutto più di maestria che di una sola natura vocale assai generosa.
L’artista sa spingerci con queste due liriche verso una rasserenante oasi di respiro cosmico che dalla notte misteriosa, in cui l’amore fa capolino come reminiscenza, deflagra in Acque di Primavera al grido di: ‘Giunge la primavera, giunge la primavera!’, ponendo un epilogo emotivo alla nostra tensione.
Il recital continua la sua traversata in mare aperto con l’aria di Sarastro del Die Zauberflöte di Mozart, in cui traluce con più forza l’ascendenza liederistica del brano e insieme la sua austera religiosità che la voce di Furlanetto incarna a meraviglia, dotata come è di una grande capacità di profondità spirituale.
Si rimane in ambito mozartiano con Le Nozze di Figaro e il Don Giovanni, rispettivamente con le due arie “Non più andrai” e “Madamina il catalogo è questo”. Con questi due brani si rimane un po’ perplessi: a prima vista sembra una scelta apparentemente contrastante con il generale impianto drammaturgico del recital, ma guardando in profondità appare plausibile che dopo il dolore, il risveglio, la preghiera, arrivi anche il momento della gaiezza libertina e delle prodezze amatorie.
Fino a questo momento assistiamo ad una descrizione integrale delle varie tonalità dell’animo umano che la voce di Furlanetto coglie con cambi di registro comunicativo e prossemico (la sua gestualità diviene eloquente e spiritosa), che lasciano intravedere in lui un possesso di una saggezza che conosce, senza scandalizzarsi, molteplicità e complessità delle geografie dell’anima.
Il canto dell’artista, dopo la scanzonata eloquenza amatoria di Leporello, raggiunge il suo culmine di espressività e bellezza nel suo cavallo di battaglia, rappresentato dalla Morte di Boris Godunov di Musorgskij, dove la veemenza declamatoria e la concitata drammaticità traspaiono con forza inaudita; la voce modula all’infinito e detiene una duttilità che sgomenta. Anche in questo brano però a primeggiare non è il dolore dell’agonia allucinatoria dello Zar, ma la sua richiesta di purezza e protezione divina, che fanno esclamare a Boris parole di arcana forza.
Furlanetto dà il meglio di sé nell’epilogo, dove il canto funebre diventa invocazione, preghiera, e con essa quella speranza che fa il paio con l’inno alla carità del primo ciclo di Brahms: in questo recital tutto torna e tutto si chiude nella cifra della redenzione.
A seguire il basso offre una ulteriore prova di eccellenza nella morte di Don Quichotte di Massenet, e lo fa trasfigurando il materiale musicale, talvolta arido della rigorosità declamatoria, trovando colori e pienezza fino a far perdere anche noi nella visione di Dulcinea che, come la Beatrice dantesca, è prefigurazione di grazia e salvezza, e continuando così la sua articolazione ermeneutica vocale che parte dalle tinte sinistre e trova poi luce nascosta al senno dei più.
Il recital si chiude con la grande aria di Filippo II dal Don Carlo di Verdi dove tutto sembra stemperarsi in un senso di nostalgia, di Sehnsucht romantica che, presaga della nostra incompiutezza esistenziale, si lascia accarezzare dall’ipnosi ciclica motivica del brano come in una sorta di dimensione onirica, dove però sembra permanere un presagio di riscatto.
Unico bis concesso la cavatina di Aleko di Rachmaninov, dove il dramma della tormentata gelosia e della infedeltà sembrano coronare ed esaurire le tinte del dolore, vero protagonista della serata; la voce di Furlanetto non sembra risentire della lunghezza del concerto e affronta baldanzoso il brano trasformando la disperazione dell’insensato uxoricidio di Aleko, anche questo sempre disilluso dalla sola dimensione della temporalità (anche il bis segue il filo del tutto), in una ricerca di assoluto.
Ad accompagnare il viaggio vocale al pianoforte il talento di Natalia Sidorenko, che con abilità tecniche e coloristiche asseconda nell’impetuosità e nei coté elegiaci e spianati il canto di Ferruccio Furlanetto; la pianista russa fornisce fondamento sonoro alle istanze profonde dell’anima espressiva del basso che è come sorretta nel suo sforzo di darsi pienamente al pubblico della Scala, che alla fine tributa gli omaggi e gli onori dovuti ad un cantante che è ormai fa parte dei grandi della storia dell’opera.
La recensione si riferisce al recital andato in scena il 6 febbraio 2021.
Giovanni Botta