
Milano – Teatro alla Scala: L’Italiana in Algeri
Il Teatro alla Scala venerdì 10 settembre ha offerto al suo pubblico la storica versione de L’Italiana in Algeri nell’allestimento di Jean-Pierre Ponnelle che ne aveva curato anche la scena e i costumi.
Un plauso alla scelta del teatro di proporre una trilogia rossiniana (alla Italiana seguiranno Barbiere e Turco in Italia), che in tal modo ratifica implicitamente la portata e la vitalità perenne di questa musica che non fatica minimamente a chiamare a sé il grande pubblico.
L’Italiana in Algeri di Ponnelle pare in qualche modo oscillare tra due polarità distinte: da una parte un’accentuazione fiabesca ed onirica, dall’altra quella farsesca, stilizzata e stereotipata che pare meno convincente.
La versione di Ponnelle non sembra avere tutti i requisiti per essere un classico senza tempo, o meglio sembra esserlo a metà: non riesce infatti ad essere perennemente attuale, secondo la lezione di Italo Calvino, e sembra per certi aspetti non rendere ragione della totalità dei significanti rossiniani. Ponnelle è forse classico nel senso di essersi posto nel nostro inconscio collettivo come qualcosa di intimamente connaturato al teatro comico rossiniano di cui pure riesce a trarne qualche parziale aspetto, ma senza cogliere l’integralità dei nessi del suo caleidoscopico mondo. L’allestimento, nella ripresa di Grischa Asagaroff, è troppo sbilanciato su una certa idea di “comico assoluto” e di assurdo con le relative esasperazioni macchiettistiche e la ricerca ostinata di effetti ludici e ridanciani (si pensi alla deprecabile idea delle reiterate coreografie sul canto ad opera dei cantanti).
La nostra sensibilità contemporanea sembra impossibilitata a compiacersi e realizzarsi pienamente in tale allestimento, congeniale forse per una determinata temperie culturale degli anni ’70, e si ha come l’impressione di rimanere estraniati e quasi annoiati di fronte ad un Rossini incatenato, schiavo della sua stessa maschera di cartone.
Un capolavoro assoluto come l’Italiana in Algeri deve poter liberare le sue traiettorie di senso potentissime e attualissime, essendo caratterizzata inoltre da un versante metafisico di interiorità e di umanità che non possiamo permettere che evaporino a favore di stilizzazioni disincarnate e grottesche.
Il mondo dei personaggi de L’Italiana è costituito da archetipi, simboli e universali concretissimi, dove tutti rappresentano sé stessi e ciò che rappresentano, soggettività avvolte nelle spire del nonsense e dell’ironia ma sempre serissimi di fronte alle grande domande del nostro tempo.
A far da contraltare all’obsolescenza dell’allestimento, fin troppo astrattamente concepito, c’è la direzione di Ottavio Dantone, segnata da pesantezza gravosa e da dinamiche monocordi in Fortissimo, disordine complessivo unito ad un’assenza di visione globale narrativa e di chiarezza di intenti; una concertazione priva di approfondimento esegetico e che non può restituire tutta la polisemicità della scrittura musicale. Dantone delude anche per la discutibile scelta dei tempi talora rapidissimi e al limite del cantabile, alternati a bruschi rallentamenti o a insopportabili discontinuità; un’Italiana, la sua, priva di dinamiche e di approfondimenti coloristici in aggiunta a molteplici scollamenti con la scena e i solisti, talora in difficoltà e tenere e rispettare i tempi della concertazione. Ottima come sempre e a dispetto di tutto l’Orchestra del Teatro alla Scala con la sua consueta capacità adattiva, compattezza ed equilibrio sonoro.
Per quanto attiene al parterre vocale femminile sono molto convincenti per bellezza timbrica, proiezione vocale, pertinenza stilistica e simpatia scenica la Elvira di Enkeleda Kamani e la Zulma di Svetlina Stoyanova. Nei confronti della prova di Isabella di Gaëlle Arquez nutriamo al contrario numerose riserve in relazione ad una performance che reputiamo anodina e noiosa; la sua voce non lascia traccia e il giovane mezzo non possiede contezza tecnica e stilistica del canto di agilità rossiniano, la sua modalità di approccio alla colorature è un mero tentativo di trovare la quadra del tutto con risultati alquanto scolastici. La voce di Arquez pare poi non possedere nessuna congenialità con il ruolo di Isabella e di quel necessario colore contraltile atto ad esprimere non solo il diffuso erotismo, ma anche la vena imperiosa e virile di questa vera e propria eroina rossiniana.
Il versante maschile invece pare riscattare tutti i limiti di questa produzione, il tenore Maxim Mironov nei panni di Lindoro si pone su una particolare linea di tenorismo rossiniano che definiremo di “grazia” o “amoroso”, e al netto di un volume e di una proiezione vocale non sempre sufficienti per la grande sala del Piermarini, convince per un’eleganza del porgere, una sapiente modulazione dinamica e per un canto aristocratico mai spinto e sempre fluido.
Ma ciò che davvero colpisce è la terna maschile delle voci gravi, principiando con quella di Giulio Mastrototaro nelle vesti di Haly ricca di armonici, bella e presentissima in sala con tecnica salda e una caratterizzazione scenica e vocale mai caricaturale ma umanissima che trasforma “Le femmine d’Italia” in un’aria eloquentissima.
Carlo Lepore nelle vesti di Mustafà è una lezione di stile e di canto insieme: la sua carriera, declinatasi per gran parte sul repertorio rossiniano, suffraga la tesi che siamo davanti ad uno degli ultimi dei grandi rossiniani. Lepore sa condurre la sua voce con maestria indiscutibile, venendo a capo delle scabrosità della scrittura vocale di Mustafà con colorature sostenutissime sul fiato sempre magniloquenti e sgranate. Il basso sa incarnare l’archetipo del personaggio che nulla a che fare con le codificate tipizzazioni farsesche di un Don Giovanni orientale gabbato dalla scaltrezza femminile occidentale. La voce di Lepore possiede passaggio di registro sicuro e saldezza nella zona acuta unita ad una verve comica asciutta e attenta a non farsi fagocitare dalla tentazione della maschera vuota.
Punta di diamante della terna è però Roberto De Candia nel ruolo di Taddeo: anche lui veterano autorevolissimo della musica del Pesarese, si erge come modello di canto rossiniano e anche la sua performance è davvero un modello di pertinenza estetica e vocale tout court. De Candia in prima istanza essenzializza Taddeo privandolo di qualsivoglia malvezzo lazzistico e manieristico, ma senza incorrere nel rischio di togliergli sostanza. De Candia, in controtendenza con l’impianto narrativo registico, custodisce con delicatezza poetica e tenera l’umana eleganza desolata del povero Taddeo, a cui riesce a fornire una non scontata caratterizzazione psicologica senza cadere mai nel clownesco e nella sterile macchietta. Sul versante vocale presenta un’emissione fluida e mai spinta, acuti saldi, legato e colorature in stile.
Buona la prova del Coro diretto da Alberto Malazzi, in piena forma e perfetta intonazione.
Alla fine della serata applausi per tutti.
La recensione si riferisce alla recita andata in scena il 10 settembre 2021.
Giovanni Botta