Milano – Teatro alla Scala: Li zite ngalera

Li zite Ngalera di Leonardo Vinci, andato in scena il 4 aprile 2023 al Teatro alla Scala, ha riscosso un successo indiscusso, reso possibile da una compresenza virtuosa di numerose concause.

L’operazione culturale di riproposizione, dopo trecento anni, di un’opera-epitome del genere della Commedia per musica napoletana, non assume solo una valenza di archeologia repertoristica, ma anche quella culturale e simbolica di forte impatto sul pubblico.
Il regista Leo Muscato e il suo team sono riusciti nell’ardua impresa di vincere la sfida del tempo, avvalendosi delle significazioni recondite sottese alla commedia per musica napoletana rispetto ad un certo semplicismo riduttivo e iperealistico in cui spesso viene relegato questo genere di repertorio.

L’approccio ermeneutico registico si pone in ascolto della profondità che alimenta la meravigliosa architettura sonora e drammaturgica dell’opera, perfettamente congegnata da un lato dalla genialità innovatrice e sperimentalista di Leonardo Vinci, dall’altra dal genio del librettista Bernardo Saddumene, che preconizza e precorre i futuri sviluppi del teatro goldoniano.

Non è scontata una lettura come quella a noi proposta dall’impianto registico di Muscato che predilige, in controtendenza alle attuali consuetudini delle trasposizioni temporali drammaturgiche, una sorta di abbandono fiducioso all’originale e all’ambientazione prevista, senza alcuna sovrapposizione esegetica e drammaturgica e senza per questo incorrere in un passatismo di maniera o didascalico.

Il risultato complessivo, complice una grande conoscenza del teatro napoletano da parte del regista, è stato quello di una sorta di estraniamento collettivo catartico sorto dall’impatto della distanza temporale e spaziale con il mondo degli affetti e delle passioni colte nella loro dimensione ideale e trasfigurante; non è una semplice rappresentazione mimetica e realistica quella che ci viene offerta, ma una rivisitazione in chiave metaforica dotata di assoluta eleganza, comicità e scevra di qualsivoglia volgarità e soluzioni grottesche.

Muscato rivela, con la sua lettura, la complessa genealogia della commedia per musica sorta nell’ambiente aristocratico culturale di Napoli con finalità culturali e morali ben al di sopra di un semplice edonismo fruitivo. Li zite ngalera cessano di essere mera musica di evasione e figurativismo realistico sonoro, divenendo teatro degli universali attraverso il grande filtro della napoletanità e del linguaggio autoctono del dialetto che fungono da risorse simboliche attive nel processo di universalizzazione dei sentimenti. Il regista ha dimostrato un lavoro profondo e analitico sulla prossemica e sulla gestualità dei solisti così permeata di vis comica del teatro napoletano, con le sue innumerevoli tipizzazioni e rievocando molte caratteristiche del teatro dei fratelli De Filippo.

L’impianto registico per poter cogliere l’idealità degli affetti e delle passioni dei personaggi coinvolti in diatribe e schermaglie amorose attinge alla secolare tradizione del teatro napoletano fatto di maschere, istrionismo, goliardia, disincanto, cinismo, passione, erotismo, licenziosità, ironia, gestualità, genius loci, con l’unica finalità di rivelare la melanconia e la nostalgia sottesa al microcosmo esistenziale messo in scena.

L’impianto scenico e costumistico di rara bellezza visiva, rispettivamente di Federica Parolini e Silvia Aymonimo, è coerente con la cifra registica e si declina in un mosaico di ambienti dell’antico palazzo sul porto di Vietri, proprietà della vegliarda Meneca; il tutto sortisce un effetto di composizioni e scomposizioni di elementi (camere da letto, cucine, terrazzi, corridoi) e di febbrile brulichio di vita. Una grande cornice che contiene il tutto e uno sfondo in filigrana del porto di Vietri racchiudono gli elementi come in una sorta di dipinto di scuola napoletana da un lato e dall’altro come uno sfondo presepiale della grande e vetusta arte napoletana, che è quello che pare evocato in maggior misura nell’interezza dell’impianto. Ad avvalorare la poetica registica è senza dubbio il suo grande lavoro sull’idioma napoletano condotto con i solisti e coadiuvato dalla esperienza pluriennale nel genere del basso Filippo Morace (impegnato anche come solista nel ruolo di Federico Mariano); il dialetto napoletano è usato come vettore ironico e comico, ma anche come interpolazione che destruttura la rigida simmetria dell’aria con da capo, che assume così una valenza dialogica e dinamica, neutralizzando così il rischio della staticità delle numerose arie solistiche.

Le luci di Alessandro Verazzi sono frutto di una rara maestria in questa difficile arte e divengono lo sfondo cromatico di un’idea; la predilezione delle tinte tenui e crepuscolari paiono disegnare atmosfere oniriche nostalgiche e coerenti con quella melanconia del teatro napoletano assetato di verità e carico di bellezza.

Il parterre dei solisti convince per bravura vocale e per aver colto una delle cifre caratterizzanti della commedia di Vinci e più in generale del genere della commedia per musica napoletana e cioè quella difficile combinazione tra attitudini attoriali, vis comica e padronanza del napoletano antico.

Degna di nota, tra le altre cose, è l’esibizione di una tarantella con propri strumenti in cui si sono cimentati i solisti, destando stupore e calorosa rispondenza di pubblico.

Francesca Aspromonte, nel ruolo di Carlo Celmino, possiede una tecnica salda, emissione controllata e bellezza timbrica, unita ad una ottima resa attoriale nella difficile parte en travesti a lei destinata.

Chiara Amarù convince senza alcun dubbio nel ruolo di Belluccia Mariano per dolcezza emissiva, legato, omogeneità e sicurezza vocale, oltre che per un indubbio talento interpretativo atto a rivelare la complessa ambiguità, eroticità e dualità della identità complessa del suo personaggio.

Francesca Pia Vitale, nel ruolo della donna fatale Ciomma Palummo, dimostra di possedere molte delle qualità proprie del soprano di carattere, mostrando piglio interpretativo, uniformità dei registri, proiezione e bellezza vocale unita ad un erotismo espressivo rarefatto e scevro da volgarità.

Filippo Morace (Federico Mariano) si conferma uno specialista di questo genere e lo fa non solo con la sua congenita napoletanità ma con una maestria vocale che sa tradurre tutte le sfumature dei dettagli ritmici e melodici del fraseggio, inverandoli con una baldanza e sicurezza attoriale non comune.

Filippo Mineccia, controtenore nel ruolo di Titta Castagna, si impone per la sicurezza vocale, proiezione efficace, tecnica e controllo, oltre che una compenetrazione nel personaggio davvero encomiabile.

Alberto Allegrezza, tenore en travesti nel ruolo di Meneca Vernilio, incarna ed invera con una pregnanza di adesione mimica ed attoriale, tutto il sostrato simbolico dell’essenza napoletana sostanziata da inflessioni, gestualità, vezzi e malvezzi della vegliarda napoletana che ha al suo attivo una serie di peculiarità che Allegrezza ci traduce nella sua variegata ricchezza unita ad vocalità sonora e sicura, cimentandosi anche in un assolo di flauto che aggiunge alle sue doti quella di musicista raffinato.

Raffaele Pe nel ruolo di Ciccariello è perfetto sia per la condotta tecnico-vocale e la ricchezza timbrica e sonora del suo strumento che per la sua istrionica abilità di inverare un topos teatrale ricorrente a metà strada tra lo scugnizzo e il fanciullino licenzioso ed inquieto, che prefigura la scomposta ed irrisolta tensione pulsionale e libertina di Cherubino.

Marco Filippo Romano come Rapisto convince su tutti i versanti, sia quello interpretativo che su quello vocale, in cui esibisce spavalderia, esuberanza e dominio dello strumento, rendendo credibile un difficile ruolo come quello a lui destinato inscrivendosi nel solco dei grandi buffi della scuola italiana.

Antonino Siragusa, Col’Agnolo, è tenore di elezione e rappresentante indiscusso della scuola di canto all’italiana in questo repertorio e in quello belcantistico consegnandoci un canto schietto, brillante, fluido e affrancato da qualsivoglia sovrastruttura, riuscendo a tradurre pienamente e con grande impatto i numerosi recitativi e le arie di carattere disegnati su questo ruolo.

Matìas Moncada nel ruolo di Assan ha voce di basso molto interessante ed incisiva dotato di bel timbro, sonorità e buona tecnica emissiva.

Fan Zhou (Na Schiavottella) a fronte della esiguità dei numeri musicali a lei riservati riesce a riscuotere un certo successo personale grazie a una linea vocale precisa e spigliatezza teatrale.

La direzione di Andrea Marcon suggella il successo di questo avvenimento musicale attraverso una puntuale contezza dei fattori in gioco nella sintassi vinciana e per una direzione storicamente informata, sempre tesa a valorizzare tempi congeniali alle diverse tipologie vocali con un perfetto controllo del palcoscenico; Marcon opta per una lettura dalle dinamiche variate ed una agogica sofisticata in una ricerca di vitalità e tensione musicale unitaria che innerva tutti i numeri musicali e i recitativi fungendo implicitamente da vettore drammaturgico coesivo e energizzante.

L’orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici e la Cetra Barockorchester, di cui Marcon è direttore musicale, sono i coprotagonisti dell’utopia estetica che è sottesa in questa ripresa storica e lo sono in virtù di una sonorità ricca, precisione, intonazione e ricchezza di fraseggio, che rendono tutto ancora più credibile e convincente.

Alla fine grande successo per tutti.

 

La recensione si riferisce alla prima del 4 aprile 2023.

Giovanni Botta

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