Traviata recensione di Giovanni Botta-tenore

Milano – Teatro alla Scala: La traviata

Il 15 settembre il Teatro alla Scala ha inaugurato dopo la Nona di Beethoven la sua stagione operistica post-Covid. La scelta di ricominciare dai grandi titoli noti al grande pubblico è quanto mai congruente al ripristino di un legame simbolico con i fondamentali della letteratura operistica; partire da punti fermi ed inequivocabili per godere di quel tepore e di quella sicurezza che solo sanno fornire i grandi universali della nostra tradizione culturale e morale. In un periodo di turbamenti e ansie collettive non c’è migliore antidoto che riscoprirsi e ritrovarsi nei grandi classici dell’eredità della nostra storia culturale.
Sul concetto di eredità occorrerà ritornare anche guardando al cast, sui cui troneggia la grandezza astrale di Zubin Mehta. Per quanto concerne l’allestimento si è trattato di una esecuzione in forma di concerto con alcuni movimenti scenici e due semplici sedie a corredare il tutto in maniera sobria. Questo minimalismo della messa in scena, così scarnificato sembra portare alla luce il cuore più profondo della musica verdiana, più tesa nella comunicazione diretta del suo messaggio interno.
L’orchestra, posizionata sul palcoscenico con il consueto distanziamento di un metro e il coro su delle passerelle poste su entrambi lati (scelta assai discutibile: perché non in fondo?) della scena ed inseriti tutti all’interno di una cabina acustica che abbiamo già sperimentato essere funzionale per la portanza acustica delle masse.
Il pubblico presente (quasi 700 persone) ha seguito con grande consenso lo spettacolo, generando un’energia assai positiva e percepibile nel corso della serata.
La lettura di Mehta è fin dall’esordio umbratile, chiaroscurale, carica di pathos intimistico. Nessuna concitazione febbrile e dionisiaca nelle feste o laddove si attenda una rottura di piani espressivi ed agogici. Mehta legge lo spartito facendo risuonare fin da subito assonanze emotive con i tempi contemporanei. Una versione classica da un lato (pensiamo ai tagli di tradizione ormai un po’ anacronistici), che si inserisce in quella ripresa dei fondamentali di cui sopra, ma modernissima dall’altro, credibilissima in special modo in quel crepuscolarismo che si mette subito in risonanza fondamentale con lo spirito del nostro tempo. Resta assodato però che una lettura filologica e integrale dello spartito sarebbe parsa più congrua con la sensibilità culturale contemporanea e avrebbe dato più completezza al tutto. Ad ogni modo il direttore fa brillare comunque il senso della parola verdiana, la sua carica drammatica e drammaturgica fino a rendere Violetta una metafora, vittima di ingiustizie che si redime dialetticamente in un’agnizione catartica finale nelle braccia di Dio (tema della speranza quanto mai attuale). Mehta priva volontariamente la partitura dei dinamismi più vitali fino a renderla trasfigurata, trasognata, pronta a imprimersi nell’anima con più profondità. Conflitto, ingiustizia, dolore, morte e riscatto: l’iter della salvezza nel tempo e attraverso il tempo intravisto anche nella Nona di Beethoven. Un filo rosso che lega i due eventi.
Dopo Mehta è quanto mai opportuno citare la perfomance di Leo Nucci. Anche qui tralasceremo volontariamente di indulgere nella ricerca cinica di possibili difetti e vezzi legati al dato anagrafico del baritono non in linea con il livello dei suoi anni migliori; Nucci è un ottantenne che canta ancora nella sua corda, in tono e senza oscillazioni (al di là di quelle naturali per la sua età), uno degli ultimi grandi esponenti della scuola del belcanto italiano da vedere ancora in azione (cosa non di poco conto vista una certa degenerazione degli assiomi della scuola italiana). Il baritono porta con sé verità scenica, parola verdiana, intensità espressiva, voce ancora salda nella zona acuta, proiezione ancora sicura, chiaroscuri, dinamiche, passaggio di registro da manuale; un mistero di longevità e carisma vocale. Possiamo solo entrare in punta di piedi nella soglia di questo gigante, così come in quella di Mehta e serbare infinita gratitudine e rispetto profondo.
Marina Rebeka ha incarnato una Violetta da manuale, sfoggiando sicurezza vocale non comune, penetranza di armonici (la sua voce corre tantissimo), omogeneità timbrica, acuti lucenti (il suo Mi bemolle legato è sonoro e saldissimo), scavo interpretativo unito ad un’espressività matura e non comune. Il soprano lettone è sicuramente e una delle cantanti più autorevoli della sua generazione, un talento vocale che fa presagire ampliamenti verso repertori più lirici.
Chiara Isotton è una Flora di lusso, e con abiti disegnati da Dolce e Gabbana (come quelli di Violetta) la voce ricca di volute armoniche e di suadenze timbriche, ha costituito insieme alla freschezza dell’Annina di Francesca Pia Vitale (allieva dell’Accademia) un parterre femminile assai efficace.
Il coté degli interpreti maschili non è da meno: da segnalare l’ottima prova di Carlo Bosi, Gastone, così come quella di Costantino Finucci, Barone Douphol; sopra le righe invece Fabrizio Beggi, Marchese d’Obigny, dalla voce tonante ma sciatto scenicamente. Alessandro Spina, dottor Grenvil, è ormai una certezza: nobile nella voce e nelle intenzioni sceniche.
Volontariamente ho posto per ultimo l’Alfredo di Atalla Ayan. La prova del tenore brasiliano non è stata all’altezza del resto del cast: l’emissione totalmente ingolata e priva di proiezione contrastava con il metallo della Rebeka, e finanche con lo squillo argentino di Bosi. L’interpretazione ha difettato poi di espressività e ricerca di dinamiche, oltre che di un minimo scavo psicologico.
Eccellente la prova del coro, che seppur dislocato in fondo e sui lati nei momenti di maggior conversazione con i solisti, è riuscito lo stesso ad essere presente con autorevolezza vocale e le consuete prodezze dinamiche, coadiuvate dal talento direttoriale di Bruno Casoni.
Alla fine applausi per tutti e pubblico assai compiaciuto e risollevato dalla grande catarsi morale ed umana del teatro verdiano, dove risiedono tutti i grandi interrogativi dell’umano e in cui tutti possono ritrovarsi come in uno specchio dal valore eterno e sempre nuovo.

La recensione si riferisce alla prima del 15 settembre 2020.
Giovanni Botta

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