
Milano – Teatro alla Scala: Il matrimonio segreto
L’ambientazione scenografica e i costumi di Patrick Kinmonth sono rutilanti, kitsch e multicromatici anche se di buona fattura e di grande impatto visivo; il tutto è collocabile visivamente ai nostri giorni all’interno di una casa grossolanamente volgare e dalla foggia ostentata e pacchiana, suddivisa tra la camera da letto di Geronimo, lo studio di Paolino e il soggiorno principale; i fondali sono gigantografie di copertine di due grandi libri d’epoca e al centro la macroriproduzione di un libretto d’opera che sembrano, a ben guardare, una cornice simbolica che sembra alludere ad una cesura tra lo sfondo dell’antico, nella sua accezione regressiva e obsoleta, nel quale si inserisce anche il supposto libretto del Bertati e il presente nella sua accezione progressiva e trendy (operazione che fa da vettore alla poetica registica).
A punteggiare lo spazio visivo policromi e giganti riferimenti marini e corallo omnipervadente, come una sorta di quintessenza della mediterraneità focosa che ha connotato questo “Matrimonio” incentrato di fatto sul monocorde gioco passionale e sulla bieca avidità pecuniaria e pulsionale.
La regista Irina Brook traduce in maniera forzosa il geniale libretto di Bertati pensando di vivificarlo non solo con le lecite traslazioni temporali o approcci interpretativi creativi, ma bensì traducendo il decorso degli affetti e delle passioni dei personaggi da ideali, astratti, stilizzati, archetipici in un magma tellurico libidico e pulsionale grottesco, corrompendo e violando alla radice la ragione e le intenzioni profonde dell’opera buffa.
La Brook dimentica che la inalterata notorietà di quest’opera si alimenta proprio della pregiata fattura librettistica che Cimarosa declina in quella sua peculiare sintassi dotata di equilibri strutturali e formali potenti e di rarissima eleganza. La regista sciorina la sua ermeneusi freudiana aggiungendo ad esso una concitata gestualità insopportabile che satura tutti gli spazi sonori; il tutto è permeato da scene di sesso (pensiamo alla simulazione di un atto sessuale tra Paolino e Carolina nella sinfonia e tantissimo altro), gag ridicole, volgarità, amplessi, ammiccamenti erotici, coreografie indegne (pensiamo a Fidalma, resa un personaggio ninfomane e psicopatico, che alla fine della sua aria simula una penetrazione posteriore con una comparsa di colore); per Brook la dinamica degli stereotipi femminili e finanche della purezza dei sentimenti (Carolina è una pura e puro e sofferto è l’amore con Paolino nella loro furtività subita) è solo traducibile in un sorta di gineceo in calore, preda di turbe ormonali e di rivalità isteriche; Geronimo assume invece i tratti di un semplice pappone coatto e il Conte un grossolano e truce decaduto in cerca di donne tradendo in tutto Bertati e la ricchezza della costellazione simbolica delle specificità di queste maschere teatrali. La Brook, credendo di essere sovversiva è lei stessa scontata e obsoleta, la sua narrazione si rivela retorica e già vista, generando un senso di noia che ci distrae continuamente dalla bellezza formale e strutturale di questo capolavoro di finezza musicale e vocale.
Come se non bastasse, la regista sottopone i giovani cantanti ad estenuanti movimenti, caricando la recitazione e compromettendo i momenti più lirici, effusivi o virtuosistici (pensiamo all’aria di Lisetta costretta a coreografare le colorature impervie della sua aria) dimentica della eloquenza potente del solo gesto vocale; in aggiunta siamo costretti a subire la esecrabile prassi, che pensavamo sepolta con quella vecchia concezione dell’opera buffa di una malsana provincia, di coreografare molte delle scene musicali nella speranza di sortire un effetto comico e dinamizzante e ottenendo invece, per una eterogenesi dei fini, una inefficace risatina e un certo imbarazzo al cospetto del sorriso che sarebbe potuto sortire da una comicità sobria.
Il parterre vocale dell’Accademia vanta la partecipazione di Pietro Spagnoli nel ruolo di Geronimo; l’artista di chiara fama e veterano dello stile e della prassi esecutiva di questo repertorio, si conferma un fuoriclasse per la sua capacità attoriale, la sonorità ricca, l’omogeneità di registro, la bellezza timbrica, sillabato e dizione perfetti, uniti ad una tecnica vocale che gli consente di non forzare mai i suoni.
Il resto del cast è costituito dai giovani dell’Accademia della Scala a cui va tutto il nostro plauso per la complessiva resa perfomativa di buon livello e per la loro capacità di sostenere attorialmente le pretese della regista non certo favorevoli al canto.
Il ruolo di Carolina è ricoperto da Aleksandra Mihaylova che senza dubbio ha un timbro bellissimo e una proiezione convincente, a fronte però di una monocorde espressività vocale e di una pronuncia poco corretta a cui si aggiunge un eccesso di suoni ingrossati nel centro che gli compromettono la saldezza del registro acuto.
Fidalma è Valentina Pluzhnikova che, seppur dotata di innegabili doti di mezzosoprano tendente al contralto, annovera alcuni difetti vocali assai fastidiosi come una costante gutturalità e un cattivo uso del registro di petto, oltre che una disomogeneità nei registri e nella proiezione del suono.
Paolino è Brayan Avila Martinez, tenore dotato di un bel timbro e di una discreta sonorità che però nel complesso mostra di possedere una voce retroposta e ovattata con una mancanza di brillantezza che inficia la proiezione e la chiarezza articolatoria; in aggiunta il passaggio di registro non è ottimale, con tendenza a suoni aperti e difficoltà nella zona acuta e nelle colorature.
Il Conte Robinson è Jorge Martinez, baritono dotato di timbro bellissimo e dolcezza di emissione, che uniti a un particolare carisma scenico, hanno caratterizzato positivamente la sua performance.
Degna di nota è la prova di Fan Zhou nel ruolo di Elisetta: il soprano cinese ha dimostrato di avere una tecnica salda, brillantezza, squillo, colorature sul fiato e spavalderia nel registro acuto. Il soprano è stato ricompensato da molti applausi sia alla fine della sua aria che al termine dell’opera.
La concertazione di Ottavio Dantone si declina nel segno di una traduzione storicamente informata di sonorità corpose, vibranti ma anche di una febbrile condotta delle parti, generando un clima di accelerazione totalizzante che non ha giovato alla resa complessiva e che fa il paio con il velocismo scenico dell’assetto registico; ci saremmo aspettati da parte di Dantone un approfondimento doveroso sul coté dell’espressività e delle infinite potenzialità di sfumature che avrebbe potuto chiedere ai ragazzi e all’orchestra, così come ci saremmo aspettati una maggiore capacità di indulgere e assecondare i momenti di lirismo e di intimismo della partitura che è invece rimasta ostaggio della scelta della celerità perenne.
Ottima la performance dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala, per qualità sonora, precisione e intonazione perfetta.
Applausi per tutti alla fine ma senza particolari entusiasmi. Tanto rumore per nulla.
La recensione si riferisce alla recita del 7 settembre 2022.