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Milano – Teatro alla Scala: Il Turco in Italia

Mercoledì 13 ottobre il Teatro alla Scala ha finalmente portato in scena la nuova produzione de Il Turco in Italia di Rossini prevista a febbraio 2020 e differita a causa dell’inizio della pandemia, chiudendo così il ciclo di un’ideale trilogia dopo il successo dell’Italiana e del Barbiere.

La regia di Roberto Andò coglie, al di là della coltre dell’ironia rossiniana, il senso poetico e metafisico sotteso all’inesauribile sintassi di Rossini. Andò ci restituisce un Rossini liberato e riformato dai suoi più tristi cliché facendoci intuire traiettorie di senso attualissime per il nostro tempo.

La lettura registica disegna una storia contrassegnata da una pervasiva malinconia, una Sehnsucht protoromantica che innerva l’apparente descrittivismo realistico della musica di Rossini. Andò non si accontenta di rappresentare un mero accadimento di incroci e conflitti dialettici tra pulsione e legge: il regista infatti preserva l’opera rossiniana dal decadimento a farsa iper-realistica e cinicamente disincantata, e si muove invece sui crinali dell’ironia e dell’empatia ma con delicatezza poetica, trasformando il reale in situazione metaforica ed atmosfera morale universale di un’inquietudine e incompiutezza sostanziale.

La spoliazione di Andò di tutti gli elementi farseschi, grotteschi e ridanciani fa il paio con l’ausilio di un ottimo impianto scenografico e di luci ad opera di Gianni Carluccio, sostanziato da pochi elementi scenici sospesi, botole che salgono e scendono, sedie che scorrono e fondali con proiezioni efficacissime di Luca Scarzella. I cantanti si muovono in platea e cantano dal palco, ad accentuare la potente metatetralità dell’opera e aggiungendo un ulteriore elemento di distacco realistico che tanto turbò il pubblico della prima all’epoca di Rossini.

Le scenografie si uniscono ai costumi rutilanti, neoclassici e dalle tinte cromatiche di fiabesca parvenza di Nanà Cecchi.

Il versante direttoriale è affidato a Diego Fasolis: la sua direzione convince, non solo per la scelta di regalarci un Turco privo di tagli e integrale riscattandolo dalla sorte di questo capolavoro segnato da pastiche, rifacimenti, varianti ed indebite decurtazioni; Fasolis convince anche in virtù del fatto che contempera nella sua organizzazione poetica la doppia anima rossiniana contesa tra apollineo e dionisiaco, cogliendo non solo la forza e la potenza del ritmo del discorso sonoro rossiniano ma anche l’elemento più marcatamente patetico, melodioso, effusivo; il Rossini del tempo giusto che libera il suo genio in inserti melodici di metafisica e aurea bellezza. Fasolis, che cura con certosina precisione i giochi dinamici e i recitativi, ha dalla sua cantanti che assecondano la ragionevolezza del suo approccio filologico ed esegetico della partitura.

Il parterre dei cantanti è contraddistinto da punte di eccellenza e da alcune zone d’ombra, che nel complesso non hanno pregiudicato il buon esito performativo della serata.

Erwin Schrott dà vita al personaggio di Selim caratterizzandolo unilateralmente nelle suoi tratti don giovanneschi e mascolini e decurtando il soggetto da qualsivoglia tinta conflittuale ed introspettiva. In questo modo il ruolo di Selim degenera ad un’iconica ed esotica maschera di seduttore impenitente falsando la poetica rossiniana; in aggiunta il cantante è pressappochista nella resa della coloratura e ha un fraseggio stentoreo e monocorde che si pone su un terreno lontano a quello rossiniano.

Rosa Feola si conferma un soprano fuori classe in tutti i suoi aspetti: la scrittura di Fiorilla, caratterizzata da una linea vocale spesso contrassegnata da momenti spianati e cantabili, non rientra nei ruoli dalla coloratura funambolica (la prima interprete Francesca Festa-Maffei fu anche la prima don Anna e la prima Fiordiligi) ed è congeniale alla sontuosità timbrica del soprano casertano. Feola riesce con mirabile maestria tecnico-vocale a tratteggiare una Fiorilla sospesa tra languido erotismo, apparente vacuità libertina e una mestizia profonda. Il soprano ostenta un legato da manuale, timbrica variata e modulata in tutte le sue gamme, riuscendo a insufflare senso profondo e a rendere teatralissima l’apparente arabesco rossiniano della scrittura vocalizzata; la sua Fiorilla trascende tutta l’apparente vuotezza del personaggio che, seppur animato da pulsioni fedifraghe ed erotizzanti, è in fondo un’anima inquieta, come mostrerà nel suo rondò del secondo atto.

Antonino Siragusa, tenore di lungo corso nel repertorio rossiniano, ad oggi è uno dei pochi che sa e può cantare Rossini nella modalità esecutiva a cui ci ha abituato il lascito della Rossini Renaissance. Nel suo canto non c’è traccia di fughe sbiancanti e sfalsettate in acuto, né di una coloratura svenevole, che invece è sempre eseguita sul fiato e legata. Il suo canto conserva una virilità e una vocalità piena e ricca di armonici, brillantezza e passaggio di registro da manuale, mentre il personaggio di Don Narciso è preservato dalla solita caricatura di macchietta efebica.

Giulio Mastrototaro nei panni di don Geronio è riuscito, con un esito personale di successo di pubblico, ad eccellere costantemente, e lo ha fatto non solo con la sua voce presentissima e ricca di armonici (era quella che suonava di più in sala) ma anche attraverso una gestione vocale sempre attenta, dominata da una tecnica solida. Mastrototaro ha la capacità (purtroppo al giorno d’oggi non più comune) di non spingere mai un suono, di fornire un sillabato sempre articolatissimo e sonoro e un fraseggio variato, oltre ad una capacità di interpretazione e di scavo del personaggio. Il suo Geronimo riesce ad essere soggetto colto senza le notorie maschere buffe che spesso si attribuiscono a questa tipologia vocale. Non c’è gigionismo e la simpatia e il sorriso sorgono dalla empatia profonda che sa risvegliare oltre il meccanismo realistico e scontato del macchiettismo.

Alessio Arduini nei panni del poeta Prosdocimo convince a metà per una vocalità talvolta scomposta e non sempre a fuoco per una sala come quella del Piermarini. Al netto di ciò Arduini possiede bel timbro e una buona attorialità che gli permette di affrontare nel difficile compito di incarnare un personaggio chiave dell’opera.

Zaida, interpretata da Laura Verrecchia, convince per il timbro gradevole, buona linea di canto e un approccio interpretativo profondo perché attraversato da una mestizia dolente che la rende pienamente metafora del dolore muliebre. Manuel Amati nei panni di Albazar ha gradevole voce di tenore di grazia e una certa disinvoltura con cui affronta la coloratura della sua aria del secondo atto, unita ad una buona verve scenica.

L’Orchestra della Scala ha dato ancora una volta il meglio di sé per ricchezza coloristica e realizzazione di un ordito orchestrale coeso, amalgamato e sempre scattante nel recepire e tradurre le variabili agogiche e dinamiche indicate da Fasolis, che contribuiscono a rendere Il Turco in Italia un’opera buffa che sembra occhieggiare più ad un dramma giocoso dove il chiaroscuro delle situazioni morali descritte da Rossini lasciano aperta la strada di una complessità dell’accadere del vivere mai pago solo di se stesso.

Ottima la prova del basso continuo di James Vaughan e del violoncello di Simone Groppo.

Alla fine della serata applausi per tutti, per quella che, personalmente, è stata una delle produzioni meglio riuscite tra le ultime proposte alla Scala.

La recensione si riferisce alla prima andata in scena il 13 ottobre 2021 al Teatro alla Scala di Milano.

Giovanni Botta

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