
Il Museo Rossini di Pesaro: metafora ed epifania dell’anima rossiniana
Il Museo Rossini di Pesaro: metafora ed epifania dell’anima rossiniana
Un museo non è un semplice e inoffensivo spazio neutro e neutrale deputato alla fruizione estetica, ma ha già in sé un’anima e una densità significante che rende possibile e invera la pienezza della ricezione estetica. Alla luce di tale assunto prendiamo atto dell’impatto profondo e desituante con il neonato Museo nazionale Rossini di Pesaro, che rientra appieno nella categoria dei musei che sono molto di più di un museo con un’eccedenza interna essenziale. La struttura è gestita magistralmente da Sistema Museo, per il versante multimediale da Ett (azienda specializzata in questo genere di applicazioni) e da professionisti della narrazione quale la Scuola Holden di Baricco. Un luogo unico nel suo genere che diviene pienamente in sé simbolo di Gioacchino Rossini, fedele in tutto e per tutto al suo correlativo simbolizzato come un’epifania dell’anima del compositore.
La sagacia della condotta musicologica della ideazione a cura di Ilaria Narici, direttore scientifico della Fondazione Rossini, sa operare poi quella combinazione alchemica tra i contenuti e la sapiente sintesi della magmatica e iridescente parabola artistica del Cigno di Pesaro con la magia dello spazio con i ricorrenti ed efficaci contrappunti di supporti integrativi multimediali e interattivi.
Il museo Rossini ha il pregio di configurarsi come un vero e proprio itinerario spaziale, metaforico, concettuale e biografico della parabola rossiniana, articolata su una geniale divisione di dieci spazi in sezioni di atti di un ideale melodramma.
La prima sala inaugurale degli specchi è l’ouverture; dalla seconda alla quinta il primo atto (nell’ordine: Infanzia e formazione-Primi successi-Soggiorno napoletano-Licenze da Napoli), dove si snoda la prima fase della vita prolifica del giovane compositore (itinerante tra Pesaro, Bologna, Venezia, Napoli, Roma, Bologna, Milano), la sesta è la sala intermezzo (Renaissance), dove poter gustare macroproiezioni delle più significative produzioni di capolavori rossiniani che l’utente può deliberatamente eleggere da se stesso; dalla settima alla decima ( nell’ordine: Parigi primo atto-Rientro in Italia-Parigi ultimo atto) si snoda il secondo atto, incentrato sull’esilio parigino, le ultime composizioni e l’epilogo della scena di Rossini.
Le sale hanno la ventura di far parte del Palazzo Montani Antaldi, di meravigliosa fattura neoclassica, e di poter ospitare al suo interno cimeli, busti, dipinti, manoscritti rarissimi e pregiati, puntuali supporti interattivi, didascalie profonde, costumi di scena, lettere, autografi, audioteca e fonoteca, e tanto altro ancora.
La ricchezza di questo spazio museale sui generis esige un’ermeneutica della sua pregnanza simbolica e della sua correlativa e non meno rilevante esperienza sinestetica e pansensoriale; tale ermeneutica implica violazione di una mera registrazione fattuale e un guardare attraverso e dentro la sintassi e la semantica espositiva.
Ciò che infatti emerge da una lettura attenta è vedere incarnato e racchiuso in tutto lo spazio una macro-metafora dell’itinerario rossiniano. Il museo ha in sé una profonda direzionalità, una teleologia immanente che inserisce l’utente fin da subito nella successione immersiva di un’opera lirica senza soluzione di continuità con le medesime oscillazioni tensionali delle sequenze tra ouverture, intermezzo, finali di atto, impennate di crescendo e agnizione conciliativa del gran finale. Il museo è come una peregrinazione metaforica nel viaggio rossiniano nulla sembra però alludere ad una destinazione scontata ma piuttosto ad una circumnavigazione nello spazio aperto del mondo e del possibile. La parabola rossiniana traccia costellazioni di senso inedite e avulse dal corso imperioso della progressione dello spirito della storia e della semplicistica evoluzione. Rossini, non si spiega con categorie temporali ma topologiche, i suoi sono mondi che attraversano la storia ma per puro caso, sono idee musicali di un altrove che disegnano una topografia di destino piuttosto che di una tappa della storia musicale.
La sala degli specchi, ossia l’ouverture, è congegnata in maniera geniale: il Pleyel di Rossini, perfettamente riattatto, troneggia in fondo alla rutilante sala, mentre dal lato opposto un ritratto del giovane pesarese pare sornionamente occhieggiare agli ignari ospiti di questo Museo. Sarebbe auspicabile vedere in questa sala anche la spinetta di Malerbi, da poco recuperata, su cui si esercitava un giovane e imberbe Rossini.
Il Pleyel di Rossini inaugura, nella sua imponenza visiva e allusiva, quell’altrove rossiniano che attraversa tutto il suo corpus creativo, quell’ineffabile segreto di una teoria metafisica che ha nella funzione taumaturgica, redentiva, teofanica e destinale della musica la sua cifra caratterizzante.
Aprire sullo strumento nudo appartenuto a Rossini significa renderlo implicitamente simbolo della cifra quintessenziale della sua poetica: la supremazia della musica su tutto. La funzione trascendente della musica incarnata da questo pianoforte nudo è come stagliare una coordinata del viaggio che ci si prepara a fare. È dal grembo della musica pura che Rossini attinge al di là della sfera del linguaggio denotativo e significante del teatro cantato, tutto si liquefa nella veemenza imperiosa della forza musicale nella quale tutti i suoi sforzi trovano la scaturigine primaria.
Rossini muove alla ricerca di un senso, di una alterità radicale, di un destino per l’uomo del suo e del nostro tempo oltre l’immanenza della gettatezza e della casualità cieca, oltre la pretesa totalizzante delle coordinate del dolorismo e della ipertrofia della soggettività e del tonante psicologismo verso cui il melodramma ottocentesco consacra se stesso.
Si parte da quel Pleyel ma si ritorna sempre lì, con un procedere in avanti che è in realtà sempre un andare a ritroso per riconquistare l’unico veicolo di ricomposizione delle dissonanze del vivere. Ogni sala dello spazio rimanda a quel Pleyel come un gigante leitmotiv che ha fatto corpo a corpo con un Rossini, ormai maturo, che non ha ceduto neppure all’ultimo alle lusinghe di sonorità e di poetiche nuove che la storia della musica ormai portava con sé; lì ritroviamo i fili del vortice e dei tormenti e delle gioie generative e biografiche del pesarese. Il ritratto di Rossini nella sala pare ironicamente sancire il suo dominio, la musica si piega alla sua ispirazione, alla sua immanente legislazione fino a incarnarsi un un linguaggio essenziale, rarefatto, platonico, metafisico, deprivandola di quel contingente eversivo e romantico. Tutto in Rossini infatti giace al controllo ordinato del magma, una perfetta follia organizzata che ha da sempre albergato nella grammatica del giovane Rossini fino al dolce epilogo della Petite Messe Solennelle.
Oltrepassata la soglia della prima sala ci si inoltra nel pressante vortice delle stanze dove ci si perde tra autografi, documenti, immagini con una sapiente scansione temporale sintetica, descrittiva e minuziosa della vita del compositore, della sua produzione e dello spaccato storico e culturale contingente tra restaurazione, rivoluzione, neoclassicismo, romanticismo, idealismo.
Ciò che davvero colpisce è una sensazione epidermica e percettiva di dionisismo esistenziale di un certo furore bacchico, edonistico, creativo, ma al contempo di ineffabili impeti apollinei, neoclassici, rigoristici, sinestetici, formali, ordinativi, metafisici, ontologici e preformativi; una furia, un genio scalmanato che imperversa tra le strade del mondo sempre indomito, impavido, audace, rivoluzionario traducibile in un plesso ossimorico di un geniale ordine disordinato. Un “genio in fuga” direbbe Baricco, ma una fuga che è in realtà una traversata epica tra le colonne di Ercole della tradizione musicale, della utopia illuministica dell’opera buffa e del totalitarismo del dramma ottocentesco incipiente, fino a travolgere gli assi portanti e fondativi di questa stessa tradizione o eludendo sagacemente i nuovi codici linguistici e poetici. Rossini fonda un nuovo mondo e una nuova soggettività all’interno di una ritrovata oggettività che sembrava ormai irrecuperabile e cinicamente accantonata.
Ci sembra di ripercorrere con Rossini il tumulto del suo ideale estetico e poetico, della forza prorompente del ritmo, della struggente bellezza melodica, degli arabeschi vorticosi dei suoi melismi e delle sue geometriche roulades, dei suoi ornamenti che si appropriano del linguaggio fino a divenire essi stessi i nuclei di un neolingua metafisica.
Il museo sembra seguire gli orditi della travolgente bellezza dei frutti ubertosi e ricchi di profumo iperuranico dell’itinerario rossiniano che cerca di arginare, mitigare affannosamente il futuro incombente e il suo immanentismo voluttuoso.
Tra il percorso delle sale magnifiche si ha l’impressione di rivivere con lui in una febbrile concitazione iconoclasta e generativa del musicista tutto teso a seminare con la sua musica i semi di un novum assoluto e sui generis del suo sublime estetico archetipico. Chi più di lui ha saputo descrivere l’essere e la densità ontologica dell’uomo in figure sonore e vocali inedite e in réveries caleidoscopiche che disegnano una costellazione di segni sconcertante? Chi ha saputo farsi latore e mediatore di un linguaggio che fa tralucere sotto la cappa asfittica della razionalità illuminista imperante e dell’incipiente romanticismo realistico e tragico la violenza neoclassica e liberante del cerchio dell’essere e del destino della trascendenza? Chi ha saputo rivendicare con forza il desiderio, l’aspirazione e il diritto alla felicità insita nel cuore dei suoi personaggi, sempre più eroi che semplici soggetti agenti? La musica rossiniana trasforma la realtà tutta in situazioni musicali, in eventi sonori che sfondano la linea della temporalità dell’esistere e rendono ragione del divenire delle cose non destinate al nulla del dramma e del dolore. Rossini elude le maglie strette dell’autonomia e la hybris autoreferenziale della soggettività moderna e melodrammatica; la sua è una premodernità ultramoderna.
Rossini in fuga dalla contingenza, dalla precarietà, avido mediatore di mondi lontani, cesellatore di oggettività assolute, di strutture formali atte a lumeggiare la densità dell’essere delle cose ci trascina con lui verso mondi nuovi, sconcertanti per la nostra sensibilità ormai sempre più tristemente ripiegata su uno sterile e in un disincantato nichilismo: in lui c’è un divenire salvifico.
Rossini spasmodico ed energico riporta sulla terra un ordine ideale che spiega la dinamica del reale altrimenti insensata e inesplicabile, un viaggio attraverso l’iperuranio e le essenze fino a liberare titanicamente la musica dal suo gravame di mimesi del reale (pensiamo alla passeggiata con Zanolini). Grazie al valore assoluto della funzione musicale e della sua caleidoscopica esuberanza belcantistica, coloristica e ritmica, i suoi personaggi sono come agiti da un ordine altro e riscattati dal possibile non sense del corto circuito del nesso libertà/necessità e della destinazione consumatrice e letale del male e li fa diventare pazzi di felicità come poi mai più accadrà. Nessuna Cenerentola e nessuna Elena calcheranno le scene dell’800.
Un inno alla gioia e al diritto di essere felici condensano il sottosuolo poetico del Pesarese. Le visioni rossiniane del mondo e dell’essere delle cose non sono però totalizzanti, sono solo intuizioni rapsodiche, coglimenti di essenze di realtà, purificazioni della materia, trasfigurazioni della gravità in levità in sorrisi in ironia distaccata, inno alla follia ordinata e alla schizofrenia del desiderio. Non giungono mai a totalità autoesplicantesi ma sono solo rotte in una geografia di una teoria metafisica della vita.
Rossini è gravato da uno sforzo immane, da un logorio di forze che sembra riecheggiare nel percorso museale ma che non può e non approda alla definitività della verità intera. Rimangono però le tracce indelebili del suo universo sonoro come la testimonianza più alta e ineguagliabile del suo genio musicale, che il Museo doviziosamente testimonia.
Rossini fa in modo che ci culliamo in un’alternanza dialettica tra tensione ascetica e rassicuranti discese. Ciò che a lui preme è mantenere il sorriso del vivere piuttosto che una titanica aspirazione impossibile all’ideale, si accontenta di immetterci in percorsi sonori che conducono al Sé al di là dell’Io, nel centro umbratile e luminoso dell’umano e del gaudio profondo e catartico che tale esposizione rivela.
La sesta sala, detta Rossini renaissance, è una perfetta epoché della mostra che si risolve nella musica di Rossini, il quale a trent’anni è gia autore di immani capolavori. Si ha l’impressione di riposare dopo l’inebriante e ansimante itinerario nella vita e nella voracità creativa di Gioacchino; ora è la sua musica a spiegarci il motivo di tanto affannoso e fecondo affaccendamento, ed ecco che sorge spontanea dal cuore degli amanti rossiniani una gratitudine estatica. C’è una spossatezza racchiusa che è impossibile descrivere e che solo un museo congegnato con tanta perizia può suscitare e che prelude al secondo atto parigino e al presagio dell’epilogo.
Il contrappunto multimediale fornito all’utente, l’uso di realtà aumentata come quella per la visione del tempietto rossiniano o di giochi musicali virtuali stempera la tensione accumulata, così che le entrate immersive interattive si accordano alla fuga iperuranica rossiniana in mondi altri. La iperrealtà sonora rossiniana, mai paga della dimensione percettiva corrente e sempre tesa ad un potenziamento ontologico, esistenziale ed estetico dell’umano sentire, si armonizza perfettamente con i moderni contributi multimediali, a prova del fatto che la sua estetica è antica, premoderna ma sempre nuova e rinnovantesi.
Le sale del secondo atto sembrano decelerare: si ha l’impressione prendere fiato e di aver guadagnato spessore come una gravità ritrovata di colpo dopo le erranze gaudiose e nevrili della gioventù; ci si ritrova tutti di un colpo saggi, gravi, ma con l’eterna giovinezza di un bambino, con gli occhi luccicanti di chi ha combattuto la buona battaglia. Ci si ritrova sapienti, ironici e melanconici come colui che desta ammirazione planetaria ma resta sempre più incompreso e attanagliato dalle strane e tragiche maglie della storia, contro cui mai ha cessato di gridare le istanze di un bene più grande intravisto, di una gioia che i suoi personaggi hanno cantato su arabeschi filigranati preziosi e fragili come equilibristi sul precipizio della follia sempre in bilico, ma forti e veri come solo la verità sa esserlo. Eroi non personaggi, che assumono in sé la legge del desiderio di vita e di gioia in un cerchio del destino aperto.
Rossini rimase un genio vivo seppur nella apparente indolenza operosa dell’ultimo periodo e noi con lui cerchiamo quella suprema sintesi finale che seppe volgersi in preghiera al buon Dio nella dedicazione della sua piccola messa, non c’è più schizofrenia ma autotrascendimento del sé verso una Gaudium questa volta totalizzante.
Rossini esige l’esegesi (come del resto questo museo), pretende uno sforzo di riflessione sulla felicità originaria e su un altrove liberante. Senza il nostro impegno responsabile la sua musica apparirebbe lontana, così come senza tale sforzo analitico e di riflessione mediata tale museo rimarrebbe solo un museo; La sua musica interpreta le nostre mancanze e interpella una riflessione seria sul suo messaggio.
Rossini è una costellazione, non è un mero precursore di altro, non è il buffo e nemmeno una presunta e retorica pienezza del Gugliemo Tell, Rossini è tutto quello che lui è stato, uno sfondo metastorico verso cui guarderanno tutti con tremore e timore.
Si esce dal museo Rossini con il cuore gonfio di quella bellezza rossiniana del suo ideale estetico a cui si donò tutto come vittima sacrificale di un mondo ormai lontano ed estraneo. Noi possiamo solo ringraziare che il Buon Dio abbia donato al mondo Il Maestro Rossini ora che tra gli angeli, conoscendolo un poco, si beffa di tutti canticchiando la Canzone del Missipipì, con buona pace delle convenienze e delle morigeratezze angeliche.
Giovanni Botta