
Gioachino Rossini: L’italiana in Algeri
Sabato 15 febbraio, allo ‘Spazio teatro 89’ di Milano è andata in scena L’italiana in Algeri di Rossini nell’ambito della ormai consolidata stagione teatrale ‘VoceAllOpera’, sotto l’egida della direzione artistica di Gianmaria Aliverta, che ritroviamo in questo spettacolo nelle vesti di regista e deus ex machina dell’opera rossiniana.
È doveroso innanzitutto rendere un grande merito ad Aliverta per la sua infaticabile sollecitudine nella promozione dei giovani cantanti debuttanti. Le sue produzioni hanno da un lato il pregio del basso costo e quindi di una rigorosa sostenibilità e al contempo non sacrificano tutte le componenti complesse del teatro d’opera, tra cui una piccola orchestra, questa volta formata dall’Orchestra civica di fiati di Milano e l’Ensemble di archi di VoceAllOpera. I costumi e le scene erano firmati rispettivamente da Sara Marcucci e da Danilo Coppola. L’approccio di Aliverta è assai dissacratorio, umoristico ed erotizzante, auspicando così di semplificare la macchina teatrale e i codici di lettura delle nuove generazioni a favore di una rigenerazione del pubblico dell’opera e dell’opera in sé.
Aliverta riesce, anche perché ha gioco facile, se così si può dire, nell’applicazione del suo criterio ermeneutico sull’opera rossiniana proprio perché quest’ultima ha già in sé valenze simboliche, asemantiche, metastoriche e di nonsense inclini a modernizzazioni o sovvertimenti temporali e drammaturgici (anche se non sempre e non in tutti i modi).
Il regista traspone tutto in un non lontano passato, immaginando un fantasmatico incontro-scontro tra una Isabella/Oriana Fallaci ed un Mustafà “trumpizzato” venduto agli americani, inanellando al suo interno una nutrita serie di gag talvolta molto simpatiche. L’allusione alla Fallaci/Isabella abbigliata fin dalla sua sortita con i vestiti della giornalista, l’inseparabile macchina da scrivere e l’immancabile totemica sigaretta, convince e sembra tenere testa al discorso musicale.
Ci sembra poi intenzionalmente minimizzato lo scontro-incontro tra Oriente e Occidente, topos di molta della letteratura melodrammatica, americanizzando e trumpizzando il côté arabo e reclutando la Fallaci come simbolo delle battaglie femministe. Il tutto si trasforma così in un match tra femminismo arrabbiato e misoginia trumpiana atlantico-sovranista, depotenziando il meccanismo ad orologeria dell’incrocio Occidente-Oriente arabo, molto poco politicamente corretto, che fa notoriamente deflagrare in modo ironico e mai beffardo archetipi stilizzati, figure atte a generare non riso ma anche un certo sentimento di patriottismo di sapore italocentrico molto sentito dal pubblico di quel tempo (pensiamo anche al Turco in Italia).
Il coro, composto da quattro voci maschili, è trasformato in odalische dell’harem di Mustafà; Taddeo, maniaco di pulizia e ossessionato dalla disinfezione, dopo la proclamazione a Kaimakan inizia un percorso di femminilizzazione con un’ossessionante lap dance che diventa un vero leitmotiv compulsivo per tutto il seguito dell’opera. La lap dance informa di sé anche il giuramento dei pappataci e le scene annesse: il tutto strappa qui e là risate, ma a mio giudizio diventa troppo ricorrente e per questo talvolta noiosa e ripetitiva.
Mustafà è un concentrato di mascolinità falloriferita, il ricorso alla sua erezione è però davvero troppo e seppur inequivocabile è il suo famelico esotismo orgonico lo troviamo così troppo eccessivo a discapito della intrinseca poesia della grammatica rossiniana sempre da tutelare. Quello che si obietta non è la lecita lettura del regista, ma che il riferimento sessuale diventi ossessivo e totalizzante (ormai talmente diffuso in ambito registico da aver perso anche i suoi connotati sovversivi originari). Il rischio di questa operazione è di compromettere l’atmosfera morale ed archetipica della musica rossiniana, dove a farla da padrone non è mai quel sorriso della follia disorganizzata della musica del Pesarese ma la risata materica dei sensi (il riferimento alla lezione di Zedda e a molti dei suoi scritti in questo è davvero essenziale).
Altra piccola perplessità si è destata nei confronti di un indulgere troppo nella “coreografizzazione” dei gesti dei cantanti, una tentazione eminente fornita dalla propulsività ritmica della musica rossiniana, che però andrebbe evitata o normata per non cabarettizzare il tutto.
La scena, costituita da un cubo semovibile che si apriva fornendo così spazi scenografici, all’occorrenza era molto funzionale. La direzione d’orchestra di Marco Alibrando, già rossiniano di elezione, convince per la scelta dei tempi, delle dinamiche preziose e della agogica scrupolosa, anche se l’orchestra non ha sempre corrisposto per qualità di suono e per le imperdonabili stonature dei fiati; del resto la collocazione sul lato sinistro dell’orchestra rende il lavoro del direttore assai più complesso, così come quello dei cantanti che in questa occasione hanno dimenticato in alcuni momenti di entrare (penso a Lindoro o evidenti décalage di Taddeo e di altri).
Il cast, composto da giovani voci, ha al suo interno delle punte di eccellenza che fanno bene al cuore e fanno intravedere una nuova generazione di cantanti rossiniani. Si fa riferimento in prima battuta alla Isabella di Sara Rocchi, voce omogenea e timbricamente bellissima, con una condotta tecnica buona e una modalità di canto scevra da oscuramenti, con una emissione libera e grande perizia nelle colorature. Manca ancora una certa maturità ma siamo sicuri che non tarderà ad arrivare .
Altra voce degna di menzione è quella di Lorenzo Barbieri (Mustafà), un basso cantabile dal timbro eccelso, di buona proiezione e agilità nonché di grande destrezza scenica ed interpretativa. Barbieri è riuscito a tenere il personaggio per tutta l’opera con una comicità atletica e una immedesimazione nel cattivo misogino assai lodevole.
Altro cantante bravissimo è Alfonso Ciulla nel ruolo di Taddeo, dotato non solo di una verve comica ed attoriale da manuale ma di una penetranza e proiezione vocale assai sostanziosa, a cui si uniscono agilità e spirito interpretativo che riscattano un certo vibrato (che non infastidisce eccessivamente) che credo nel tempo possa attutirsi.
In evidenza anche la simpatica Zulma di Marta di Stefano, dal timbro molto gradevole e dalle risorse sceniche e comunicative degne di nota.
Purtroppo dobbiamo arrestarci nella disanima delle voci talentuose, a cui auguriamo una felice carriera, per addentrarci nelle dolenti note degli altri interpreti. Il Lindoro di Bekir Serbest è fuori da ogni criterio tecnico ed interpretativo, così da compromettere la resa del personaggio di Lindoro. La cavatina ‘Languir per una bella’ è terminata con difficoltà e al termine della recita il tenore è passato in emissione falsettata per compensare la disfonia evidente (stesso episodio ripetuto nel difficile duetto con Mustafà) udibile a fatica perfino in una sala molto piccola quale lo ‘Spazio teatro 89’. Comprendiamo la giovane età e l’arditezza funambolica della tessitura ma evitare ruoli al limite delle proprie possibilità sarebbe gesto di saggezza e di preservazione del proprio strumento.
Un demerito va anche attribuito alla voce di Kaori Yamada (Elvira), piccola, scarsamente proiettata e con oscillazioni non proprio rassicuranti, che ha purtroppo mancato nella resa della difficile risoluzione dei Do acuti tenuti nella stretta del primo atto, anche se dobbiamo riconoscerle una buona resa scenica.
Lorenzo Liberali (Haly) che non convince affatto: goffo e inibito sul versante scenico e fuori fuoco su quello vocale. La voce, timbricamente non felice, indulge in una ricerca esasperata di immascheramento, il che la rende ancora più povera di armonici e talvolta stucchevole nella ricezione acustica.
Alla fine abbiamo assistito ad un allestimento nel complesso fresco, divertente e davvero funzionale sia per i giovani debuttanti che per il pubblico che affollava il piccolo spazio teatrale, che ha salutato con grande entusiasmo interpreti e regista alla fine dello spettacolo.
La recensione si riferisce alla recita del 15 febbraio 2020.